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Ai margini del conflitto
Analisi di Michelle Mazel
(traduzione di Yehudit Weisz)
Quel che segue accadde a maggio. Era esattamente martedì 11. Alle sei della sera precedente, l'urlo delle sirene aveva colto di sorpresa gli abitanti di Gerusalemme. Appena un minuto dopo, erano risuonate delle sorde esplosioni. Hamas aveva appena lanciato sei razzi contro la capitale di Israele. Tsahal, però, non aveva attaccato la Striscia di Gaza e non si era lasciato andare ad alcuna provocazione, ma il movimento terroristico, al potere a Gaza dal 2007, vuole porsi a difensore dei palestinesi; ha usato il pretesto degli scontri scatenati in questo periodo di Ramadan dalle decine di migliaia di fedeli che affollano quella che chiamano “la Spianata delle Moschee” o “ Haram es Sherif” e che per gli ebrei è “il Monte del Tempio.” Fortunatamente i razzi sono caduti nei pressi della Città Santa, provocando unicamente danni materiali; solo che sono stati seguiti da dozzine di altri che avevano preso di mira il resto del Paese. L'esercito israeliano ha reagito, dando il via all'operazione “Guardiano delle Mura” che durerà undici giorni. Nel cuore del Negev, questa vasta regione semidesertica nel Sud di Israele, degli arabi israeliani decidono di contribuire allo sforzo bellico - dalla parte di Hamas. Eppure si sa che il Negev fa parte dei territori attribuiti a Israele dal il voto delle Nazioni Unite sulla spartizione della Palestina mandataria. In quel martedì 11 maggio sono in cinque a mettersi in agguato lungo la “strada n.6”, l'autostrada di quasi 200 chilometri che attraversa il Paese da Nord a Sud.
Gli obiettivi sono scelti con cura. Non vogliono correre alcun rischio. Un'auto si sta avvicinando; alla guida c’è una donna sola. Una gragnola di pietre la costringe a fermarsi. Strappata dal sedile, massacrata di colpi, riesce a liberarsi, corre verso un camion che arriva a grande velocità, si ferma per farla salire e la porta in ospedale. La sua auto incendiata è avvolta dalle fiamme. Arriva un altro veicolo. Al volante, un uomo solo. Si ripete lo stesso scenario. Lanci di pietre, conducente estratto dall’abitacolo e picchiato a sangue mentre le fiamme divorano la sua auto. Improvvisamente gli aggressori capiscono che la loro vittima non è israeliana e nemmeno ebrea: è un lavoratore thailandese. Lo abbandonano sul ciglio della strada e cercano una nuova preda. Che si presenta. Il conducente è davvero un ebreo israeliano; è solo nell’auto che è costretto a fermare dopo che la pioggia di sassi lo ha investito. Tuttavia, si difende con vigore e resiste ai cinque uomini che cercano di costringerlo a uscire ma che si affrettano a darsela a gambe quando arriva la polizia, allertata dalla prima passeggera. Rintracciati dalle forze di sicurezza dopo diverse settimane di indagini, ora sono dietro le sbarre. Sono nati e cresciuti in Israele. Sono arabi; sono musulmani ma non si considerano palestinesi. Si tratta infatti di beduini; dei beduini che appartengono tutti alla stessa tribù, una delle più importanti del Negev. Come espresso giustamente dal Generale de Gaulle, “Nel complicato Oriente, bisogna venire con idee semplici.
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