Riprendiamo da LIBERO di oggi, 30/08/2021, a pag. 1, con il titolo "Minimizzare le foibe? La mia famiglia fu distrutta dalla violenza titina", il commento di Elisabetta De Dominis.
Tomaso Montanari
Caro direttore, ti ho mai parlato delle sofferenze degli esuli italiani che lasciarono l'Istria e la Dalmazia nel dopoguerra? La sinistra nutre il pregiudizio che fossero fascisti e quindi se lo sarebbero meritato... Trecentocinquantamila italiani fascisti, compresi i bambini? Ma per favore. Non si poteva rimanere nella nuova Jugoslavia comunista perché ti ammazzavano per rubarti casa e beni. Sono rimasti solo coloro che non possedevano nulla o erano anziani o non sono riusciti a scappare. Se scoprivano che parlavi anche lo slavo, eri slavo e quindi non potevi andartene. Non solo: i delatori venivano ripagati dai titini e quindi c'erano denunce continue, esattamente come durante la caccia agli ebrei in Italia. Tito aveva dato, a chi l'avesse aiutato nella guerra di conquista, la possibilità di saccheggiare ed occupare le case. Per rimpinguare le sue schiere, aveva promesso ai kosovari le licenze di gioielleria, pasticceria, frutta e verdura; cosa che rispettò. E da dove sono partiti nel '43? Dal sud della Dalmazia, dove stavano i ricchi, italiani ma anche slavi e molte famiglie erano miste. Li il mare fungeva da foiba, anche se la procedura era leggermente diversa. Ti arrestavano e ti gettavano in mare, ma solo dopo averti legato una pietra al collo e amputato mani e piedi affinché non ritornassi a galla. Non c'era neppure la possibilità di portarsi una valigia con sé. Bisognava scappare e basta.
Una foiba
FUGA IN CARRO La mia famiglia era benestante: mio nonno era italiano e mia nonna croata. D'inverno vivevano a Zagabria e d'estate sull'isola di Arbe, la più a nord della Dalmazia, nel Quarnero. L'8 settembre '43 la sorella di mia nonna le ha telefonato dicendole di tomare subito a Zagabria perché stavano arrivando i partigiani e mio nonno sarebbe stato dichiarato nemico del popolo e ucciso come proprietario terriero. Presero la sera l'ultimo traghetto per Fiume senza valige e con i soli vestiti estivi addosso, come gli afgani di oggi. La strada per Zagabria era interrotta a causa delle sparatorie tra tedeschi e titini e i miei nonni con 4 figli, tra cui mio padre che aveva 17 anni, rimasero a Fiume, nascosti a casa di parenti per un mese, poi dissero ai figli: «Si va per un po' a Venezia». Mio nonno acquistò un carro con un cavallo, dove sali mia nonna che era incinta, e si diressero a Trieste per prendere il treno per Venezia. Mio padre diceva sempre che quella strada la conosceva benissimo perché se l'era fatta a piedi; sono circa 75 chilometri. Anche il cugino di mio nonno con la famiglia era salito sul traghetto, ma riscese perché i suoi suoceri non volevano abbandonare l'isola. L'indomani i partigiani arrivarono all'alba a prelevarlo con la scusa che avevano bisogno di un medico per andare a combattere. La moglie e i suoi due figli lo aspettarono per cinque anni, subendo vessazioni di ogni sorta, poi partirono e raggiunsero altri parenti sfollati in Piemonte.
ODORE DI CARNE UMANA Mio padre venne bocciato alla maturità classica a Venezia, perché a Zagabria aveva frequentato il liceo tedesco e non scriveva bene in italiano. La verità è che lo considerarono un fascista. Per fortuna parlava molte lingue e fu assunto come interprete dagli americani a Trieste. A casa nessuno raccontava di quanto avevano sofferto dopo, i racconti erano solo del prima, dell'epoca felice. Mio suocero venne gettato in foiba a Gorizia: si salvò perché era l'ultimo della fila, a cui era legato con il filo spinato. Era rimasto incastrato in un cespuglio e dopo tre giorni passarono dei contadini e lo liberavano. Perse un polmone. Per anni non ha mangiato carne alla brace perché in quelle interminabili ore aveva respirato l'odore di carne bruciata umana.
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