Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 28/08/2021, a pag. 29, con il titolo "I doveri di una potenza", l'analisi di Bernard-Henri Lévy; con il titolo "Jihadisti moderati l’ultima illusione", l'analisi di Lorenzo Vidino.
Ecco gli articoli:
Bernard-Henri Lévy: "I doveri di una potenza"
Bernard-Henri Lévy
Ci sono eventi così. Arrivano con passo felpato. Con passi di colomba, come diceva Nietzsche. Non li senti arrivare e ci vuole un terzo orecchio per distinguere, dietro la “voce di silenzio sottile”, l’eco della deflagrazione. Fu per esempio quel giorno nel IV secolo avanti Cristo in cui il battaglione sacro di Tebe massacrò a Leuttra, in Beozia, quattrocento spartiati, gli “uguali” di Sparta: senza che sul momento nessuno se ne rendesse conto, segnò la fine dell’egemonia spartana. O la battaglia di Cheronea, trent’anni più tardi, che segnò l’inizio del riflusso della potenza ateniese. O la minuscola battaglia di Pidna, ai confini della Tessalonica, che accelerò lo sgretolamento del sogno di Alessandro e fu la prima vera vittoria dell’Impero romano in gestazione. O ancora la battaglia di Adrianopoli, che all’inizio era un’operazione di polizia condotta da una legione venuta a rimettere in riga bande di predatori ostrogoti e di cui, anche in quel caso, nessuno capì, sul momento, che si trattava del primo atto della caduta di Roma. Questo meccanismo l’ho descritto nel 2016 ne L’Empire et les cinq rois ( L’impero e i cinque re).
Lo abbiamo visto all’opera nell’oscura ma decisiva battaglia di Kirkuk, che vide l’abbandono da parte di Donald Trump, in Iraq, degli alleati curdi dell’America. Ed è lo stesso scenario a cui stiamo assistendo oggi, con il successore di Trump, Joe Biden, che abbandona a se stesso un altro Paese amico, l’Afghanistan. Perché? Perché una grande potenza ha dei doveri nei confronti dei suoi alleati. Perché per quanto possano sembrare lontani l’Afghanistan e la sua guerra, è devastante l’immagine di quelle masse di donne, bambini e uomini che cercano di aggrapparsi alle ali degli aerei americani che lasciano Kabul. Perché l’infamia è ancora più terribile di quella del 1975 a Saigon, considerata una data nera nella storia del declino americano, ma dove Lyndon Johnson ebbe almeno il merito di andarsene non prima ma dopo aver organizzato, in buon ordine, la partenza di 135.000 civili vietnamiti che avevano lealmente servito l’America. Perché domenica, a Washington, c’è stato lo spettacolo vergognoso del comandante in capo di quella che fu la prima potenza mondiale che si degnava di rientrare dalle vacanze per snocciolare in tv, come un ragioniere del disastro, le brillanti performance della sua operazione di evacuazione penosa e raffazzonata. Perché è un’onda d’urto che è partita da lì per spazzare via, da Taiwan ai Paesi baltici passando per il mondo arabo, la fiducia che esisteva nella solidità, l’affidabilità, il rispetto della parola data degli Stati Uniti. E ci sono altre cinque potenze che hanno subito approfittato dell’occasione e cercano di occupare il vuoto lasciato da questa débâcle. La Turchia, il cui presidente preconizzava, in occasione di una telefonata con Putin, di adottare un approccio «progressivo» nei confronti dei talebani. Putin, che in una conferenza stampa con Angela Merkel in cui si concede il lusso di impartire una lezione di governance agli americani «irresponsabili» saluta i «segnali positivi» inviati dai talebani e il loro comportamento «civilizzato». L’Iran, che ha operato un voltafaccia rispetto alle vecchie discordie con i popoli sunniti e il cui ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, già a luglio ha salutato, alla presenza del leader talebano Sher Mohammad Abbas Stanikzai, la «sconfitta» del «Grande Satana». I cinesi, il cui ministro degli Affari esteri, Wang Yi, il 28 luglio ha incontrato il mullah Abdul Ghani Baradar, uomo forte dei talebani e ormai numero due del regime. E l’internazionale islamista, naturalmente, che, dietro al Qatar e ai Fratelli musulmani, sa di poter disporre ormai, meglio ancora che a Mosul o a Raqqa, di uno Stato islamista a pieno titolo da dove preparare l’assalto ideologico e, a Dio piacendo, terroristico contro le odiate democrazie. Certo, la Storia non è già scritta. Gli uomini, che fanno la Storia, non sono mai al riparo da un momento di grandezza che potrebbe improvvisamente eludere la cattiva sorte. E penso, in particolare, al Panshir, dove un altro Massud, smentendo la frase di Marx sulla Storia che quando si ripete è solo sotto forma di commedia, riprende, in questo stesso momento, la fiaccola che gli ha lasciato suo padre, quell’eroe assassinato alla vigilia dell’11 settembre: che l’Occidente venga in suo soccorso, che la Francia, per esempio, ascolti il suo appello e capisca che è lì, in quella valle della speranza e della libertà, che passa la linea del fronte fra le cinque potenze revisioniste e coloro che continuano a scegliere di resistere; e forse l’esito sarà diverso. Ma per il momento è questo il punto in cui siamo. È l’immagine delle democrazie liberali, attraverso la più grande di esse, che appare offuscata ovunque. È un nuovo ordine delle cose che poco a poco, in una regione che come tutti sanno fu lo scenario del Grande Gioco, si disegna sotto i nostri occhi, e lo fa in mezzo al frastuono dei rotori e al brusio degli appelli al soccorso, come un paradigma che si riproduce con una ridistribuzione dei ruoli, delle influenze e dei discrediti. Se ciò avvenisse e se la mappa delle potenze, delle influenze e delle alleanze dovesse stabilizzarsi in questo modo, allora Kabul sarebbe la nostra Pidna o la nostra Cheronea: oggi il nostro tormento, ben presto il nostro rimorso e fra non molto la nostra tomba.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Lorenzo Vidino: "Jihadisti moderati l’ultima illusione"
Lorenzo Vidino
È presto per trarre con certezza le conseguenze, ma il terribile attentato di Kabul avrà probabilmente l’effetto di accelerare una difficile, ambigua, ma ormai evidente tacita alleanza tra americani e talebani. Il pragmatico avvicinamento delle due parti è iniziato da tempo, sotto Obama con una diplomazia sotto traccia, poi con incontri più ufficiali a Doha sotto Trump. Al netto della orribile implementazione del ritiro dal Paese, Biden ha semplicemente continuato la policy dei suoi predecessori, che si basa su due assunti. Il primo è la ferma volontà di Washington di portare la propria presenza nel Medio Oriente al minimo indispensabile per salvaguardare interessi fondamentali (concetti poi difficili da identificare in pratica). Il consenso sulla questione, anche se dettato da motivazioni diverse (riposizionamento in ottica anti-cinese, meno interesse nel petrolio, constatata impossibilità di creare democrazie nella regione), è bipartisan. Il secondo assunto, non certo formulato come policy ufficiale e a volte negato con imbarazzo, è quello che postula che, in sostanza, esistano jihadisti estremisti e jihadisti moderati e che l’America possa “fare affari” con i secondi. Secondo questa visione, lo Stato Islamico rappresenterebbe il grande problema, un gruppo ossessivamente intento a compiere attacchi contro l’Occidente e con il quale è impossibile trattare. Chiunque combatta il gruppo in una regione in cui non si vuole più sacrificare vite americane e dollari è pertanto visto come un utile alleato, indipendentemente da quali possano essere ideologia e scopi ultimi. E così, in funzione anti-Stato Islamico, gli americani si sono trovati a coordinarsi/supportare (le sfumature sono discutibili) nemici giurati come le milizie sciite pro Iran in Iraq e gruppi legati ad Al Qaeda in Siria. Ma esiste un jihadismo moderato con il quale possiamo negoziare? Pochi a Washington hanno il coraggio di dirlo apertamente, ma alcuni ritengono che Biden stia compiendo una mossa di lungimirante realpolitik affidandosi a chi, pur rimanendo ostile all’America e violando sistematicamente i diritti umani, non costituisce una minaccia per l’Occidente, anzi combatte chi come lo Stato Islamico lo è. Qualche condanna di rito sugli abusi delle donne, una mezza sanzione e, alla fin fine, si lascia un Paese che poco importa all’elettore americano in una situazione accettabile. Vi è però l’opinione opposta, che pensa che non esista un jihadismo moderato ed uno estremista, ma solo uno paziente e uno impetuoso. I talebani ed i gruppi della galassia qaedista hanno capito che gli americani temono e attaccano solo chi li attacca — ben vengano quindi, dal loro punto di vista, gli attacchi come quello dell’aeroporto di Kabul, che li fanno sembrare, rispetto allo Stato Islamico, forze moderate e perfino utili in chiave antiterrorismo (non sfugga al lettore il paradosso dei talebani come forza antiterrorismo). Ma questo pragmatismo talebano è solo volto a sfruttare la voglia disperata degli americani di lasciare la regione e consolidare così il proprio potere in Afghanistan. E se nel breve questo approccio può anche portare alcuni vantaggi per Washington, non ci vorrà molto prima che talebani e qaedisti facciano quello che è nel loro Dna ideologico: destabilizzare la regione ed esportare il terrorismo in Occidente. Difficile per i politici occidentali, perennemente preoccupati da cicli mediatici ed elettorali ininterrotti, non rifugiarsi in comode soluzioni di breve termine ed invece pensare alle implicazioni di lungo periodo. Fondamentale però farlo quando ci si confronta con un movimento che ha una concezione totalmente diversa del tempo e che vede la propria battaglia come parte di una lotta millenaria.
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