Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/08/2021 a pag.26, con il titolo "Quel gesto di fiducia" il commento di Alberto Melloni
Alberto Melloni
Papa Francesco
Per cogliere il senso dell’appello rivolto al Papa da figure autorevoli del rabbinato contestando una sua catechesi sulla lettera ai Galati, bisogna fare qualche passo indietro. Indietro fino all’alba del regime di cristianità, quando una minoranza interna al giudaismo diventò religione dell’impero. Indietro fino al tempo in cui la crociata insegnò a uccidere gli ebrei. Indietro fino alle teologie che bruciavano i Talmud per costringere gli ebrei a essere ciò che si immaginava fossero. Indietro fino ai tempi di Jules Isaac, il grande storico francese scampato per caso nel 1943 alla deportazione ad Auschwitz della intera famiglia: intellettuale coraggioso del dialogo a cui si devono le amicizie ebraico-cristiane e i "punti" di Seelisberg che nel 1947 ponevano il problema del rapporto fra la pratica genocidaria della Shoah e la predicazione cristiana del disprezzo antiebraico.
Non ci si poteva liberare da quel nodo baloccandosi con la ovvia differenza fra il razzismo "biologico" dei fascismi e l’antisemitismo "teologico" dei cristiani. Infatti il problema non era la loro diversità: ma il sommarsi dei rispettivi disvalori. E fu anche grazie al coraggio con cui Giovanni XXIII assunse i punti di Seelisberg che il concilio, nel 1965, sarebbe giunto alla deplorazione solenne dell’antisemitismo "di chiunque e di qualunque tempo". Quell’atto ha permesso molte cose: la cassazione del "perfidis" dal Messale, la sconfessione della accusa di deicidio e del sangue — su fino al discorso di Wojtyla a Magonza, nel 1980: in cui il Papa riprese il dettato neotestamentario sull’eternità dell’alleanza fra Dio e Israele, di cui il dono della Torah, scritta e orale, è pegno e via. Una svolta epocale: che tuttavia lasciava prevedere che la massa inerziale di secoli di antisemitismo cattolico avrebbe permesso a pregiudizi antichi e facilonerie solo apparentemente innocue di ripresentarsi: per tradizionalismo, per ignoranza, per superficialità. Ed era prevedibile che contro di esse non sarebbe bastato né il dialogo degli insipidi né la vigilanza degli spigolosi: serviva una vigilanza dialogica, esigente. Quella che c’è fra persone che si fidano.
È questa fiducia che ha segnato il rapporto fra il rabbinato e papa Francesco davanti a letture sbagliate del Nuovo Testamento. Si pensi alle espressioni contro i farisei: frasi che sono diventate la matrice della cantilena che oppone il cristianesimo "religione dell’amore" al giudaismo "religione del taglione": marker che segnala un analfabetismo religioso patente e un antisemitismo latente. Si pensi alla predicazione di Paolo di Tarso, la cui teologia della grazia alle genti, decontestualizzata, è diventata leva per sostituirsi alla elezione. Su questi punti il rabbinato ha fatto con Francesco ciò che non si sarebbe fidato a fare con nessun altro Papa: esplicitare le proprie ansietà e spiegare, nel caso della catechesi agostana sui Galati letta dal Papa, che presentare l’anteriorità della alleanza rispetto al dono della Legge significa suggerire l’obsolescenza della osservanza della Torah ed evocare teologie della sostituzione che non è difficile nemmeno oggi saldare ad altre culture dell’odio.
Eccesso di suscettibilità rabbinica? Pretesa smodata? No, semmai il contrario. È la prova che l’ebraismo confida che il Papa capisca: un titolo concesso a pochi. È la fiducia che nel viaggio in Ungheria e Slovacchia — luoghi densi di discriminazioni antiche e moderne che sovente agitano empie la croce come un feticcio — il Papa chiederà perdono per l’antisemitismo di ieri e di oggi e saprà rispondere a quell’appello che non può restare inascoltato. Perché tocca una delle cicatrici più tragiche della storia ebraica e cristiana.
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