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La Repubblica - Il Foglio Rassegna Stampa
26.08.2021 Afghanistan: esiste una (piccola) resistenza democratica
Analisi di Alberto Cairo, Francesco M. Cataluccio

Testata:La Repubblica - Il Foglio
Autore: Alberto Cairo - Francesco M. Cataluccio
Titolo: «L’orgoglio del Panshir che resiste - Esportare la democrazia in Afghanistan ha senso. Il socialismo, no»

Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 26/08/2021, a pag. 6, con il titolo "L’orgoglio del Panshir che resiste", il commento di Alberto Cairo; dal FOGLIO, a pag. I l'analisi di Francesco M. Cataluccio dal titolo "Esportare la democrazia in Afghanistan ha senso. Il socialismo, no".

Ecco gli articoli:

Afghanistan, il Panshir resiste con il figlio di Ahmad Shah Massud - Tag43
Ahmad Massoud

LA REPUBBLICA - Alberto Cairo: "L’orgoglio del Panshir che resiste"

Unica nel Paese, la provincia del Panshir non vuole piegarsi ai talebani. Alcuni applaudono, altri prevedono assedio e sconfitta. Che prenderla sia difficile allungherebbe solo l’agonia. Mi auguro trovino una pacifica soluzione. Ora valle celebrata, era in passato un posto di gente povera e fiera, tutta di etnia tagika. Chi, per sopravvivere, fuggiva a Kabul, era destinato a lavori come il venditore d’acqua ambulante o a riparare biciclette lungo la strada. Delle ricche miniere di smeraldi hanno sempre beneficiato in pochi. I russi, negli anni Ottanta, hanno cercato svariate volte di prenderla, bombardandola. Quando ci sono riusciti -per un breve periodo- l’hanno trovata vuota, evacuata per ordine del Comandante Massud. La valle comincia strettissima, con le pareti ripide e il fiume impetuoso. Chiamano trote i suoi pesci, ma sono altro, così pieni di lische da farti scordare il sapore. Risalendola, le sponde si allargano e la bellezza è mozzafiato. Nel 1999 i talebani arrivarono fino a Gulbahar, alle porte della valle. Lo ricordo bene perché mi trovavo lì per aprire un nuovo centro di riabilitazione. I talebani sfondarono da est e sud. Vedemmo un mare di donne, vecchi e bambini arrivare disperati, spingendo animali e carretti con poche cose. Ci unimmo loro ed entrammo nella valle, risalendola in macchina fino a dove vi era strada. Poi a piedi e a cavallo. Un viaggio fantastico, se le scene di disperazione viste non fossero state lì a perseguitarmi. Superato il passo Anjuman, già nella provincia di Badakhshan, giunse la notizia che il Comandante Massud aveva compiuto il miracolo, riprendendo, con una operazione fulminea, ogni territorio perso nei giorni precedenti. Ora la valle è sotto assedio nuovamente, con il figlio del Comandante a continuarne l’opera. Mi dicono sia semivuota, le donne e bambini messi al sicuro, e siano rimasti solo soldati e pochi anziani. Nell’Afghanistan talebano, essere originario del Panshir non è vantaggioso oggi. Fahim, insegnante, dice che nessuno è scortese con lui, ma il trattamento che molti gli riservano è cambiato, freddo o brusco. Per fortuna il vicino di casa, mullah pashtun come i talebani, l’ha rassicurato, parlerà con questi se gli dessero noie. Ma racconta di aver assistito ad un alterco tra una pattuglia talebana e un tassista panjshiro come lui. Sono stati con lui molto più duri che con gli altri autisti. L’uomo non ha potuto che chinare il capo, scordando l’orgoglio.

IL FOGLIO - Francesco M. Cataluccio: "Esportare la democrazia in Afghanistan ha senso. Il socialismo, no"

Quando, il 24 Dicembre 1979, i sovietici invasero l'Afghanistan (impantanandosi in un sanguinoso conflitto senza risultati che sarebbe durato fino al 15 febbraio 1989) ero a Varsavia a una modesta ma affollata cena nella casetta di alcune studentesse di medicina di Kabul, di una bellezza folgorante, gonne corte, trucco elegante e nessun velo. Da parecchie notti il cielo era stato attraversato da un continuo, e rumoroso, passaggio di pesanti aerei. La gente non aveva dubbi che fossero mezzi militari sovietici e si chiedeva preoccupata dove fossero diretti. Le ragazze afghane, tutte iscritte al locale Partito comunista (Pdpa, Partito democratico popolare dell'Afghanistan, fondato nel 1965), erano euforiche perché sapevano benissimo che quegli aerei andavano in "aiuto" dei loro compagni, e del presidente Hafizullah Amin che, dopo il colpo di stato del 28 aprile 1978, aveva avviato radicali riforme, osteggiate dai settori più tradizionalisti e religiosi della società: ateismo di stato; obbligo per gli uomini di tagliarsi la barba; divieto per le donne di indossare il burqa; regolazione dell'afflusso alle moschee; divieto di matrimoni forzati e limite di età per il matrimonio; riforma agraria di ridistribuzione delle terre per passare da un sistema feudale ad uno socialista; industrializzazione dipendente dall'Unione sovietica e introduzione di scuola e sanità pubblica sia per i maschi sia per le femmine. In realtà, con l'intervento militare "fraterno", i sovietici volevano mettere al potere l'altro dirigente, della fazione meno radicale e più fedele, del Pdpa: Babrak Karmal. Per far questo, le truppe speciali sovietiche uccisero Amin, il 27 dicembre, e lo sostituirono col corrotto e immobile Karmal (che rimase al potere fino alle fine del 1986). Nei giorni successivi, negli ambienti del dissenso polacco (alcuni esponenti erano presenti alla cena della vigilia con le afghane) si aprì una discussione sulla modernizzazione di un paese tribale e se questa potesse essere imposta, non disinteressatamente, dagli stranieri. La cosa più sorprendente fu che alcuni, più scalmanati e "pragmatici", si misero a organizzare una sorta di "brigate internazionali" (dove conversero anche alcuni cechi e bosniaci) per andare in aiuto dei combattenti mujaheddin, in base all'antico principio "il nemico del mio nemico è mio amico". Insospettabili biondini iniziarono a girare per Varsavia con barbe lunghe (senza baffi) e strani cappelli. Sostenevano di non avere simpatie ideologiche per i mujaheddin, ma che essi erano partigiani che combattevano per libertà. Questi giovani e sprovveduti polacchi erano animati da quella tradizione patriottica che aveva spinto il grande poeta romantico, Adam Mickiewicz (1798-1855), ad andare a tentare di organizzare a Costantinopoli (dove morì di colera) una legione di combattenti contro i russi nella guerra in Crimea. Così, alcuni polacchi partirono per le montagne dell'Afghanistan. Quelli che conoscevo, tornarono dopo non molto tempo inorriditi dalla ferocia dei mujaheddin (e anche dei soldati sovietici) e dal modo in cui venivano trattate le donne. Le studentesse afghane sparirono rapidamente dalla circolazione. Rimase, molto accesa, la discussione tra gli intellettuali dissidenti, sulla natura e i limiti dell'esportazione della democrazia" e sulla necessità di non aspettare aiuti dall'estero, ma costruire pazientemente le condizioni per un cambiamento dal basso. Era la società civile che, da sola, doveva organizzarsi, darsi delle strutture clandestine, cercare alleanze con i lavoratori per diventare maggioritaria. Con il senno del poi, comunque, avevano visto giusto coloro che previdero quanto quella guerra sanguinosa sfiancò i sovietici. La sconfitta e il ritiro li indebolirono, costituendo uno dei fattori del crollo dell'Unione sovietica e del suo impero. Ma già prima, fecero intuire agli oppositori che i sovietici non si sarebbero avventurati più tanto facilmente in nuove missioni fuori dai propri confini per difendere i regimi loro alleati (infatti il generale Jaruzelski, nonostante le minacce bellicose dell'Urss e degli altri paesi del Patto di Varsavia, fu invitato, e aiutato, a sbrigarsela da solo con un colpo di stato). Oggi, in Polonia, gli intellettuali dissidenti di allora, molti dei quali, dopo aver dato un contributo fondamentale al ritorno della democrazia nel loro paese, sono nuovamente all'opposizione, si interrogano, nei pochi media rimasti sotto il loro controllo, sulla tragedia afghana e sulle sue possibili conseguenze (mentre il governo è soprattutto preoccupato che l'Europa non imponga al paese quote, anche minime, di profughi). Da quello che sta rapidamente accadendo si comprende che gli Stati Uniti interverranno molto difficilmente ancora in aiuto di nazioni minacciate da potenti vicini o da dittatori dispotici. La società americana non lo vuole. Lo ha detto chiaramente Biden nel suo discorso del 17 agosto dopo il precipitoso e disorganizzato ritiro statunitense (auspicato fin dai tempi di Obama, quando Biden era vicepresidente). Tutti i paesi dell'ex "blocco sovietico" (dai baltici alla Polonia) da oggi sono più soli, per non parlare di Taiwan, della Birmania, del medio oriente e, persino, di Israele. Gli statunitensi non sono più intenzionati a "morire per Danzica". Non lo sono perché stanno venendo al pettine, al di là delle pesanti crisi economiche, i limiti della loro concezione di "esportatori della democrazia" e l'idea di come si gestisca un impero, come aveva già ben analizzato il neoconservatore, membro dell'Istituto di affari esteri di Washington e professore all'Istituto per le politiche mondiali, Joshua Muravchik, in Exporting Democracy (The Aie Press, Washington 1992). La questione irrisolta è quella della consapevolezza che, dopo la vittoria della guerra, occorra mettere in atto tutte quelle strategie e investimenti, ben mirati, per dominare il popolo sconfitto e convincerlo dei valori che il vincitore pretende di incarnare. Non è sempre stato così, come viene ricordato nel volume a più voci, America's Role in Nation-Building: From Germany to Iraq (Rand Corporation 2003), a cura di James Dobbins che, dopo una lunga carriera diplomatica e di insegnamento, nel 2013 tornò al Dipartimento di stato per diventare il rappresentante particolare, dell'Amministrazione di Obama, per l'Afghanistan e il Pakistan. Esaminando i casi delle strategie statunitensi, successive alla vittoria militare (Germania, Giappone, Somalia, Haiti, Bosnia, Kosovo, Afghanistan) nel tentativo di pensare un intervento efficace nell'Iraq (altro dilaniato paese dove, un eventuale ritiro degli Stati Uniti, costituirebbe una catastrofe economica e sociale e un'endemica guerra civile), gli autori dimostrano che gli Stati Uniti, dopo la Seconda guerra mondiale, agirono bene, pur tra molte difficoltà e contraddizioni, in Germania e in Giappone, creando le condizioni per un dominio senza la necessità di un continuo intervento della forza. Allora, seppur tra contraddizioni, incertezze e tragici errori (basti pensare all'America latina), gli Stati Uniti avevano un'idea, frutto di decine di esperti e studiosi capaci (molti emigrati dall'Europa e dagli altri paesi del mondo), e non di politici e commentatori improvvisati, che suggerivano prudenza, rispetto e moderazione. Il nemico non andava violentato e umiliato, ma aiutato a risollevarsi economicamente e politicamente. Questa era, quando si è palesata, la forza degli Stati Uniti rispetto all'Unione sovietica che, confusa e annebbiata ideologicamente, riteneva che il proprio modello "socialista" potesse andar bene per tutti e, se non piaceva, c'era la repressione e la violenza. Nel suo libro più "politico", La rovina di Kash (1983), Roberto Calasso scrisse: "Un giorno gli Stati Uniti si trovarono a essere un impero. Ma non sapevano che cos'è un impero. Credettero che fosse la più grande fra le corporations". Ciò che sta tragicamente avvenendo in Afghanistan in queste settimane è la conseguenza dell'incapacità statunitense, negli ultimi cinquant'anni, di agire sul piano internazionale diversamente da una corporation ben armata.

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