Afghanistan, editoriale 1: con le donne afghane di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 22 agosto 2021 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Dalla parte delle donne afghane»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 22/08/2021, a pag. 1, con il titolo "Dalla parte delle donne afghane", l'editoriale del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
La disastrosa esecuzione della fase finale del ritiro dall’Afghanistan da parte dell’amministrazione Biden ha aperto una stagione di seria incertezza sul futuro della Nato ed espone gli Stati Uniti al rischio di un indebolimento strategico davanti ai più aggressivi rivali globali, Cina e Russia. Ma in attesa di conoscere le evoluzioni di questa forte scossa agli equilibri internazionali possono esserci pochi dubbi sul fatto che i primi indiscutibili cambiamenti vengono da Kabul, dove l’arrivo dei talebani porta una minaccia diretta ai diritti fondamentali di tutti i cittadini e soprattutto a quelli delle donne: catapultate in pochi giorni da una realtà nella quale la legge le equiparava agli uomini alla dimensione di prede dei fondamentalisti islamici. Durante la prima conferenza stampa nel palazzo presidenziale, il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid ha promesso «il rispetto delle donne nei limiti dell’Islam» nell’evidente tentativo di rassicurare la comunità internazionale, dalla quale ora il regime dipende per aiuti economici e scambi commerciali.
Ma a sette giorni dalla caduta della capitale le notizie che filtrano da più regioni afghane sotto il tallone dei talebani descrivono un evidente peggioramento della condizione femminile. I talebani infatti hanno iniziato da subito ad imporre numerose restrizioni nei confronti delle donne. Quelle più comuni, diffuse quasi ovunque nei distretti lontani da Kabul, riguardano la proibizione di uscire da casa senza essere accompagnate da parenti maschi e l’obbligo di indossare il burqa, che copre l’intero corpo femminile dalla testa ai piedi. Alcuni comandanti talebani hanno ordinato ai mujaheddin di entrare nelle case, verificare la presenza di donne non sposate o vedove fra i 16 ed i 45 anni e quindi di farsele consegnare dalle rispettive famiglie, perché destinate ad essere assegnate e sposate a combattenti islamici. È questa opera di ricerca casa per casa, con ispezioni molto aggressive, che ha innescato un tam tam di allarme e paura fra le donne — soprattutto giovani — in più località, spingendole a non tornare a casa e rifugiarsi altrove, trovandosi in situazioni di persistente pericolo, senza contare il bisogno di cibo e danaro per sopravvivere. È una situazione di emergenza crescente, dove i talebani si comportano da cacciatori che braccano le donne nubili o vedove trattandole come prede di guerra. Ognuna di loro sa bene cosa l’aspetta in caso di cattura: lo stupro, la sottomissione, le nozze forzate e una totale assenza di diritti, dallo studio al lavoro, compensata dall’obbligo di fare figli da destinare alla Jihad. Le donne di Kabul sentono che questo incubo sta arrivando loro addosso. È un conto alla rovescia preannunciato da quanto avviene attorno a loro: le immagini femminili sui cartelloni strappate o annerite, le giornaliste della tv pubblica alle quali viene impedito di lavorare, le insegnanti donne non più in grado di avere studenti maschi. Per non parlare della fatwa emanata nell’Università di Herat — 40 mila studenti — per mettere al bando l’educazione mista «perché radice di ogni male nella società» come dichiarato dal Mullah Farid, nominato dai talebani a capo dell’Educazione superiore. Non siamo ancora alla chiusura delle scuole femminili ed al divieto di esercitare molte professioni — che distinse il regime dei talebani del Mullah Omar dal 1996 al 2001 — ma si tratta comunque di provvedimenti brutali e misure che si richiamano all’interpretazione più fondamentalista della Sharia, la legge islamica, lasciando intendere quale tipo di Emirato i talebani hanno iniziato a costruire. «Quello che i talebani dicono sulle donne e quanto stanno facendo in pratica sono due cose molto differenti» riassume Pashtana Durrani, insegnante e attivista dei diritti umani, parlando da Kabul alla tv britannica Bbc. Non è la prima volta nella Storia che regimi dispotici mascherano le più brutali violazioni dei diritti umani con dichiarazioni e politiche tese ad accattivarsi il resto del mondo. La scelta delle democrazie è se credere alle bugie dei dittatori perseguendo una realpolitik che sacrifica i diritti umani oppure sfidare la disinformazione, battersi per le vittime della repressione e trasformare i diritti umani in una formidabile arma di pressione su questi regimi. Ecco perché la difesa delle donne afghane costituisce oggi un bivio evidente fra tradire e difendere i propri valori sul quale ogni democrazia mette in gioco le proprie credibilità, identità e dignità. Ed è un bivio ancor più cruciale perché le società occidentali sono attraversate da una giusta e sacrosanta mobilitazione per rafforzare il rispetto delle proprie donne e per estendere la parità di genere. Ma battersi per proteggere i diritti delle donne all’interno dei nostri confini ed accettare in silenzio la brutale violazione dei diritti delle donne afghane sarebbe la più vergognosa contraddizione. Ecco perché bisogna stare dalla parte delle donne afghane senza accettare passivamente che vengano stuprate, schiavizzate e imprigionate sotto il burqa anche se questa oggi può sembrare una battaglia quasi impossibile da vincere: difendere i loro diritti è un cruciale banco di prova per ogni democrazia e, in ultima istanza, per ognuno di noi. Più ci batteremo per loro, più avranno la forza di resistere, difendersi, avere speranza. Perché, come disse nel 1986 l’appena liberato dissidente ebreo russo Natan Sharansky al presidente Usa Ronald Reagan, ricordando i nove anni di detenzione passati nel gulag siberiano Perm 35, «quando eravamo in cella e sentivamo che vi battevate per noi, capimmo di non essere più soli e che la sorte dei nostri carcerieri era segnata».
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