Riprendiamo da AVVENIRE del 17/08/2021, a pag. 3, l'articolo "Cosa rivela la legge polacca sulle 'non restituzioni' " di Daniela Padoan.
Il 12 agosto, il Parlamento polacco ha approvato una legge che bloccala possibilità di rivendicare i beni saccheggiati e confiscati durante la Seconda guerra mondiale e in epoca comunista, fissando un limite di 30 anni per impugnare in tribunale le richieste di restituzione a decorrere dalla decisione amministrativa di confisca della proprietà. Nonostante le proteste internazionali, il provvedimento, è entrato in vigore con la firma del presidente della Repubblica Andrzej Duda, esponente del partito di destra Diritto e Giustizia. La nuova normativa colpirà essenzialmente i sopravvissuti alla Shoah e i loro discendenti. Già nel 2019, la destra nazionalista si era mobilitata contro ogni forma di risarcimento dei beni strappati alle vittime dei pogrom e della deportazione nazifascista. Gli slogan non lasciavano spazio a dubbi: "La Polonia non ha obblighi", "Iene dell'Olocausto", "Non si regalano proprietà senza eredi". L'oggetto materiale del contendere è quasi sempre rappresentato da case o aziende di famiglia sequestrate due volte, prima dagli occupanti nazisti e, al termine della Seconda guerra mondiale, dalle autorità polacche dell'era comunista. La possibilità per i sopravvissuti o per i loro familiari di riottenere i beni rubati o confiscati si aprì nel 1989, con la caduta del comunismo, mala Polonia - a differenza di altri Paesi dell'ex blocco sovietico - non approvò mai una legge che regolasse la restituzione o il risarcimento, mantenendo in vigore le leggi postbelliche che escludevano ogni dovere da parte dello Stato e affidavano i singoli casi al giudizio dei rispettivi tribunali.
Torna alla mente "1945", il meraviglioso film diretto dal regista ungherese Ferenc Török, in cui si narra come, nell'agosto del 1945, due ebrei, padre e figlio, giungessero in un villaggio dove, nel pieno della guerra, una famiglia di ebrei benestanti era stata denunciata e consegnata ai nazisti per impossessarsi, dopo la deportazione, della loro drogheria. L'intero villaggio è d'un tratto, senza motivo apparente, gettato nello scompiglio: i due uomini garbati e schivi agitano le coscienze, creano diffidenza e odio, timore di vedersi smascherati, costretti a riconsegnare il maltolto. Benché i due forestieri siano venuti semplicemente a seppellire nel cimitero ebraico le povere spoglie della famiglia sterminata, la loro perturbante presenza manda in pezzi la comunità. «Dobbiamo restituirgli tutto», proromperà alla fine l'alcolizzato del paese, ma sarà il solo. A prevalere negli altri sarà l'odio. In modo ancora più affilato, il libro-inchiesta della giornalista polacca Anna Bikont, "Il crimine e il silenzio", tradotto in italiano da Einaudi nel 2019, ricostruisce il tessuto di omertà nato da un eccidio del 1941 in un paesino del nord della Polonia, dove normali cittadini rastrellarono i vicini di casa ebrei - milleseicento persone, uomini, donne e bambini. Ne uccisero quaranta in piazza, con asce, bastoni e coltelli, dopo averli costretti a cantare e ballare, e condussero gli altri, tra cui diversi neonati, in un fienile al quale diedero fuoco dopo averne sbarrato ogni apertura. Le case degli ebrei assassinati furono saccheggiate e occupate, gli averi ripartiti, la memoria della loro esistenza cancellata. Decenni dopo, quando Bikont, venuta a conoscenza di frammenti di questa storia oscura e terribile, decise di ricostruirla, non furono solo i discendenti degli assassini a tentare di insabbiare i fatti, addebitandone la responsabilità ai nazisti o addirittura alle vittime; lo stesso fecero politici di destra, storici, giornalisti persino sacerdoti. Contestazioni vennero sollevate anche contro "Avvenire", che diede conto del libro e della meticolosa ricostruzione non solo della verità di un passato rimosso, ma dell'odio e dell'indifferenza che nascono dalla mancanza di memoria condivisa.
L'odio mette radici anche perché dà un dividendo politico che cresce nel silenzio e nella disinformazione. Ecco perché lo scorso mercoledì, insieme alla legge sulla restituzione, è stata approvata una legge sui media che limita libertà e indipendenza di emittenti e giornali polacchi, bloccando l'accesso di proprietari non europei. Il provvedimento è inteso a distruggere l'indipendenza della prestigiosa e seguita Tvn, di proprietà di un editore statunitense. Rieccoci, dunque, alla totale negazione di responsabilità nella Shoah. Già nel 2018, era stata fatta una legge che prevedeva la condanna fino a tre anni di reclusione per chiunque parlasse di «campi di sterminio polacchi» o accusasse «pubblicamente e contro i fatti, la nazione o lo Stato polacco di essere responsabile o complice dei crimini nazisti compiuti dal Terzo Reich tedesco». Solo davanti alla durezza della reazione internazionale il governo si risolse all'abrogazione, ribadendo che i polacchi, in blocco, «non furono complici, ma vittime dei nazisti». Se questa legge fosse stata attuata, chi avrebbe corso il rischio di cercare, come Anna Bikont, la verità storica? Chi avrebbe provato a far luce sulla trama di complicità che deve ancora essere sgrovigliata perché giustizia sia davvero fatta - pur senza mai dimenticare che la Polonia fu invasa, distrutta e sottomessa dagli occupanti tedeschi e sovietici? Come tutti i regimi dimostrano, imposizione ideologica e oscuri profitti vanno di pari passo. E la legge sulle restituzioni è un impasto perverso di negazione ideologica e convenienza materiale.
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