Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/08/2021, a pag.29, con il titolo "Tutti a tavola con la Torah", l'analisi di Marino Niola.
«Quanto si muove e ha vita, vi servirà di cibo. Vi do tutto questo, come già le verdi erbe. Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè il suo sangue». Siamo nel nono capitolo della Genesi , all’indomani del diluvio universale e il Signore mette sulla tavola degli uomini tutto ciò che sta nei cieli, nel mare, sulla terra, tutto ciò che cammina, che vola, che striscia. Ma pone subito numerosi tabù. Come quello di mangiare carne contenente sangue. Forse in memoria dell’assassinio di Abele. E ai divieti del primo libro della Bibbia seguono quelli del terzo, cioè il Levitico . Che traccia una invalicabile frontiera tra il puro e l’impuro, tra le specie commestibili e quelle che un ebreo osservante non può mangiare senza peccare. Disco verde per i ruminanti dotati dell’unghia bipartita. Una doppia clausola che taglia fuori di netto il maiale, perché ha sì l’unghia fessa, ma non rumina. E anche il cammello, che rumina ma non ha l’unghia bipartita. Sì agli uccelli, con moltissime eccezioni tra cui il pipistrello, che evidentemente anche prima del Covid non ha mai goduto di buona stampa. Ok anche per i pesci, purché abbiano pinne e squame. Quindi niente polpi, calamari, seppie, crostacei e frutti di mare. E mai, per nessuna ragione, associare la carne con il latte nello stesso pasto. Di conseguenza mangiare come Dio comanda nella cultura ebraica significa intonare un controcanto gastronomico della Torah . Un promemoria culinario che alterna ricette e precetti, per dirla con Miriam Camerini, nota studiosa di ebraismo. Rinsaldando i legami familiari e collettivi attraverso la preparazione e il consumo dei piatti della tradizione. Di fatto, i ricettari, tramandati di generazione in generazione, danno vita ad un grande patrimonio alimentare, attraverso il quale l’antico popolo di Israele si ritrova unito, anche se disperso ai quattro angoli del pianeta.
Così la cucina diventa un fatto che è al tempo stesso intimamente domestico e intensamente pubblico. Perché mangiare alla giudia significa prima di tutto non dimenticare mai che il cibo è una cosa sacra. Non a caso all’inizio e alla fine del pasto si recita una preghiera per ringraziare Dio dei suoi doni alimentari e per chiedergli di contenere la voracità degli uomini entro i limiti della decenza. E non ci si può alzare dalla tavola senza aver benedetto e ringraziato il nome del Signore, raccolto e conservato le briciole di pane, segno di abbondanza e riposto il sale, simbolo del cerimoniale del Tempio di Gerusalemme. Questa acribia rituale rifletterebbe lo stato di perenne inquietudine in cui versano gli ebrei osservanti di fronte al cibo. A dirlo è la psicoterapeuta e scrittrice Anna Segre, che cita in proposito una fonte rabbinica secondo cui «quando il Tempio esisteva, l’altare espiava per tutti; dalla distruzione del Tempio (70 d.C.), la tavola di ciascuno espia per lui». Quindi, osservare rigorosamente i precetti della Torah non rappresenta un esercizio ozioso, una pignoleria integralista, una puntigliosità anacronistica, come insinua un laicismo superficiale. Invece costituisce una forma di religiosità che non è fatta solo di incorporei misteri teologici e vertiginose altezze metafisiche, ma anche di comportamenti concreti, cerimonie casalinghe, gesti tramandati sempre alla stessa maniera, per non disperdere quella parte dell’identità collettiva che è tramata di vita quotidiana. Pratiche di distinzione, le ha definite il sociologo francese Pierre Bourdieu. Regole, prescrizioni, protocolli, paletti, impedimenti, interdizioni, obblighi e anche molti tabù.
Un corpus di leggi conosciuto sotto il nome di kasherùt, che stabilisce cosa è kasher (o kosher), cioè puro, corretto, e cosa non lo è. Seguire i precetti religiosi significa dunque aderire ad un progetto esistenziale, ad un vero e proprio stile di vita, che fra l’altro vieta anche la prevaricazione dell’uomo sulla natura. Ma la cucina ebraica non è solo divieti. A farne un grande giacimento culturale è una stratificazione secolare di sapori, umori, odori. Da cui sono nati capolavori della cucina italiana di cui beneficiamo tutti. La parmigiana di melanzane, le zucchine alla scapece, il baccalà fritto, le triglie alla mosaica (comunemente dette alla livornese), la crostate di ricotta e visciole, i carciofi alla giudía, che nella comunità ebraica di Napoli si soffriggevano con olive e capperi, mentre in quella romana, si immergono nell’olio bollente, per farli riemergere come fiori dorati e fragranti. E con tutta probabilità sono ebraici anche il pan di spagna e i baci di dama. Nonché il fish and chips, arrivato dall’Andalusia in Inghilterra seguendo il filo d’Arianna della diaspora sefardita. E poi, nella cultura ebraica mangiare significa anche raccontare. Tanto che per i bambini vengono inscenate piccole pièce teatrali, come quando si porta a tavola la "Ruota di Faraone". È il manicaretto dello Shabbat Beschallach, il sabato in cui si ricorda la fuga degli ebrei dalla schiavitù egiziana. Racconta il Libro dell’ Esodo che il Mar Rosso prima si apre miracolosamente per far passare il popolo di Mosè, ma subito dopo si richiude sugli inseguitori. Le onde che sommergono l’esercito del Faraone in questo piatto vengono rappresentate dalle tagliatelle all’uovo immerse nel brodo di cappone. In quei deliziosi marosi galleggiano le teste dei soldati egiziani sotto forma di uvette e polpettine di manzo. Mentre i pinoli tostati simboleggiano le lance degli aggressori disperse tra i flutti. E una serie di rondelle di salsiccia d’oca (l’equivalente kasher del maiale) raffigurano le ruote divelte dei carri. È un piatto rituale, che consente di rimangiare la propria storia. Insomma, un modo di mandarla a memoria mandandola giù. E da qualche anno, gli alimenti prodotti secondo le regole ebraiche e rigorosamente certificati dai rabbini, conquistano anche i palati dei Gentili, cioè i non ebrei. Nel Nord America rappresentano oltre un terzo dei cibi venduti. È un consumo parallelo, che in questo caso non obbedisce a nessun comandamento se non alla domanda di sicurezza e salubrità, parenti strette della purezza. Questi consumatori acquistano a marchio kasher per ragioni di fiducia, più che di fede. Evidentemente l’autorità religiosa è più credibile dell’autority alimentare. Siamo in pieno cortocircuito tra alimentazione e devozione, tra salute e salvezza. A riprova del fatto che il cibo è diventato la nuova religione del nostro tempo e la tavola l’altare dove si celebra il culto del corpo.
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