Un nuovo pasticcio di Stefano Stefanini A proposito di Lod, città simbolo delle sfide di Israele
Testata: La Stampa Data: 09 agosto 2021 Pagina: 19 Autore: Stefano Stefanini Titolo: «Gli ebrei, gli arabi e il sogno di Lod che va in pezzi»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/08/2021, a pag. 19, con il titolo "Gli ebrei, gli arabi e il sogno di Lod che va in pezzi", il commento di Stefano Stefanini.
Ecco un nuovo pasticcio firmato Stefano Stefanini, un articolo che mescola informazioni eterogenee e fonti diverse, finendo per risultare poco chiaro.
Ecco l'articolo:
Stefano Stefanini
Lod
“Nessuno pensava che i nostri vicini si girassero contro di noi». Naomi (il nome è fittizio) è ebrea, i vicini arabi. Tutti cittadini israeliani. Le violenze dello scorso maggio l'hanno risparmiata. Ci mostra un appartamento adiacente travolto da un'ondata di puro vandalismo gratuito. Nulla rubato; tutto devastato. Siamo a Lod, città mista al centro di Israele. L'edilizia è decorosamente popolare. Non c'è separazione fisica. Arabi ed ebrei condividono scale e pianerottoli, cortili e negozi, autobus e nettezza urbana. Naomi viene da un insediamento. Si è trasferita a Lod con il marito per far crescere i figli in un ambiente diversificato, e perché le case sono meno care. Ha fatto attivismo civico. Possibile, e la voce le si rompe, durante le violenze «non ricevere neanche un sms, un come state» dai conoscenti arabi della porta accanto? Intorno a noi bambini giocano fra scivoli e altalene. Insieme? Naomi esita. Forse prima, ora chissà. Incrociamo un'anziana residente ebrea: «Sono qui da quarant'anni; grazie per essere venuti a vederci». Il nostro fantastico accompagnatore di tutto il viaggio è il Generale (della riserva) Dov Sedaka. E' passato attraverso guerra, pace, cooperazione e negoziati. Proviene da un quartiere misto di Haifa e, dice, «li stiamo tornando alla normalità». A Lod invece, dove la comunità ebraica più religiosa che secolare ha tenuto le distanze dalla maggioranza araba, con economia stagnante, «ci vorrà più tempo». Siamo nello strato centrale di quella che un analista chiama la «cipolla del Medio Oriente»: popolazioni e risorse, le prime generalmente in eccesso sulle seconde, gomito a gomito. Sconfina nel secondo: identità, religione, lingua. L'uno obbliga alla convivenza; l'altro la separa. Entrambi sono subiti, non scelti. Il terzo strato è regionale. Israele voleva essere un avamposto europeo; oggi è parte integrante del Medio Oriente. La svolta autoritaria in Tunisia sembra dare ragione allo scetticismo israeliano sulle «primavere arabe». «Qui non esiste primavera», è un concetto «eurocentrico». Le «primavere» hanno solo fatto venir meno i due pilastri dei regimi: il monopolio della forza e l'indottrinamento. Il primo incrinato da piazza, milizie e jihadisti; il secondo compromesso definitivamente dai social media. In pace fredda con Egitto, solida con Giordania, quasi calda con il Golfo, Israele non è più circondato da governi ostili ma da bandiere tribali a briglia sciolta. A Sud, c'è Hamas incuneato a Gaza e il Sinai egiziano nelle mani di simpatizzanti di Al Qaeda. A Nord, il Libano è una «cortina fumogena» per le operazioni di Hezbollah e i suoi mandanti iraniani; milizie al soldo di Teheran operano anche al confine siriano. Sunnite, non sciite, ma l'Iran è l'unico datore di lavoro sul mercato. All'esterno gli strati internazionali: lo scontro di potenze regionali, mascherato dal paravento religioso sunnita-sciita che si interseca con quello politico radicali-moderati; il grande gioco tra vecchi protagonisti, Stati Uniti e Russia, astri nascenti come Cina, forse India, personaggi in cerca d'autore, come l'Europa. Vicina geograficamente, dimenticata politicamente da Netanyahu. Potrebbe cambiare col nuovo governo — prova anche la recente visita del Ministro degli Esteri Yair Lapid in Italia. Ue ed europei dovranno però smarcarsi nettamente dal boicottaggio dei prodotti israeliani (Bds). Finché è campagna non governativa Israele fa buon viso a cattivo gioco contestandola dove e come può, ad esempio sul piano del diritto internazionale. Come componente di politica estera è inaccettabile. Risorse, territorio, identità sono stati ostacoli non sormontati in trent'anni di negoziati israelo-palestinesi. Anche quando le posizioni delle due parti sono state più vicine, raccontano i veterani delle trattative, lo erano più in principio che in concreto. Non è mai stato un classico negoziato internazionale; è un negoziato esistenziale. Israeliani e palestinesi devono accordarsi non solo su come ripartirsi il territorio — problema non da poco — ma su come condividere le rispettive versioni di storia, religione e cultura. Per legittimarle entrambi accampano titoli di proprietà di lunga data. Il catasto si perde nei millenni. Dall'alto dell'insediamento Eli, una colonna mostra orgogliosamente le sottostanti rovine della capitale del Regno di David. E' nata e cresciuta a Los Angeles, si sente tornata a casa. Nel tunnel sotto la spianata delle Moschee e il Muro del Pianto, un archeologo mette a nudo impressionanti muraglie, intatte, del tempio di «Erode il Grande», non nascondendo che gli scavi servono anche a dimostrare che «eravamo qui prima di loro». Sì, ma adesso sono tutti qui. Con i suoi quattro quartieri, armeno, cristiano, ebraico e musulmano, la città vecchia di Gerusalemme è già una comproprietà. Se «si toglie Dio dall'equazione», osserva alquanto irriverentemente una guida, la torta si può spartire. Sarebbe una vittoria per tutti. A condizione di far propria la raccomandazione che Sedaka fece ai suoi uomini nella «guerra dei soldati» del 1973, mentre difendevano strenuamente le alture del Golan dall'offensiva siriana: «Per vincere bisogna non odiare il nemico». Perché dopo la vittoria ci vuole la pace e non c'è pace con odio.
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