Afghanistan 2: l'offensiva dei talebani Commenti di Giampaolo Cadalanu, Federico Rampini
Testata: La Repubblica Data: 09 agosto 2021 Pagina: 14 Autore: Giampaolo Cadalanu - Federico Rampini Titolo: «L’avanzata dei talebani - Ora Biden teme il ritorno dei jihadisti»
Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 09/08/2021, a pag.14, con il titolo "L’avanzata dei talebani", l'analisi di Giampaolo Cadalanu; a pag. 15, con il titolo "Ora Biden teme il ritorno dei jihadisti", il commento di Federico Rampini.
Ecco gli articoli:
Giampaolo Cadalanu: "L’avanzata dei talebani"
Giampaolo Cadalanu
I primi a percepire la paura sono i soldati afgani: si insinua sotto l’uniforme, si fa largo di fronte ai rifornimenti che non arrivano, dilaga quando dalle zone dei combattimenti più aspri arrivano notizie di militari torturati, accecati, giustiziati a freddo dopo aver finito le munizioni. E per qualcuno la tensione è insostenibile, l’unica scelta è buttare la divisa in un fosso e sparire, sperando che nessuno si ricordi. Gli uomini dell’Esercito nazionale sanno che il mostro è vicino, a pochi chilometri dalle città, fermato solo dalla loro resistenza sempre più precaria. La paura è arrivata nei centri più popolosi: a Kunduz, dove nella notte di sabato gli integralisti hanno conquistato diversi quartieri, dando alle fiamme interi edifici, prendendo possesso degli uffici governativi e rivendicando la conquista totale. A poco è servita la precisazione governativa, quasi inascoltata, secondo cui le truppe speciali stanno ancora combattendo per riprendere le zone perdute. Del tutto persa è da ieri Taloqan, capoluogo della provincia di Takhar: per i talebani è un successo simbolico, perché la città a suo tempo era base del leader mujahiddin Ahmad Shah Massoud e roccaforte dell’Alleanza del nord. L’offensiva dei fondamentalisti sembra inarrestabile, e difficilmente servirà a rallentarla la decisione del presidente americano Joe Biden, che ha dato il via libera a bombardamenti con i B-52 e con le "corazzate volanti" Hercules Ac-130. Dopo gli scontri vicino a Herat, Kandahar e Lashkar-Gah, si combatte anche a Faizabad. Nei giorni scorsi è caduto il primo capoluogo, Zaranj, della provincia di Nimroz, al confine con l’Iran. Poi è toccato a Sheberghan, capoluogo del Jawzjan e tradizionale base dell’ex vicepresidente Abdul Rashid Dostum. Persino lui, signore della guerra dalla fama di crudeltà estrema e leader della minoranza uzbeka, ha sentito il morso della paura nelle reni ed è riparato precipitosamente a Kabul. Lo stesso, dicono fonti afgane, ha fatto un altro potente del nord, Mohammed Atta Noor, governatore di Mazar-e-Sharif. «La verità è che questi signorotti non hanno nessuna voglia di combattere. Hanno fatto milioni di dollari con gli occidentali e hanno comprato case a Dubai, in Turchia, in Tagikistan. Ora preparano le valigie», racconta un osservatore qualificato da Kabul. L’unico warlord che non ha ceduto alle promesse né alle minacce dei talebani è Ismail Khan, che ha schierato i fedelissimi accanto alle truppe governative per difendere la "sua" Herat. Ma nella città che fino a poco tempo fa era affidata ai militari del nostro Paese si sentono già le esplosioni. Le code all’aeroporto, dove sventolava il tricolore, sono senza fine. E la delusione di chi aveva contato sulla riconoscenza italiana è tangibile. «Mando continuamente messaggi alle persone con cui lavoravo, ho provato a telefonare all’ambasciata. Ma non riesco ad avere una risposta. E temo per la vita mia e della mia famiglia. Dopo dieci anni di collaborazione con le Ong italiane e con la Cooperazione, ora sono spariti tutti. Sono sicuro di essere nella lista degli obiettivi dei talebani, devo andare via. L’Italia non risponde, per disperazione ho provato persino al consolato iraniano, ma ormai è chiuso», dice al telefono da Herat, con voce rotta, un ex interprete che chiameremo Hamid. Nelle zone del distretto di Herat conquistate dagli studenti coranici è già disponibile una anticipazione di quello che sarà l’Afghanistan del futuro: «Hanno preso due persone accusate di furto e hanno loro mozzato le mani», racconta Hamid. E per le donne il terrore è totale: «Sappiamo che nelle zone controllate prelevano le vedove e le nubili fra i 15 e i 40 anni, per darle in sposa ai combattenti. L’organizzazione Voice of Women ha fatto sgombrare le ospiti del suo rifugio in città per evacuarle a Kabul d’urgenza. I maschi vengono arruolati a forza». Anche la capitale è paralizzata. Chi può, evita di uscire per strada. L’incubo degli attentati sta pian piano bloccando anche l’attività economica. I residenti di Kabul raccontano di una rabbia diffusa verso il governo e verso l’Occidente, responsabile di aver distribuito illusioni per poi abbandonare il Paese ai fondamentalisti. Chi può permettersi un biglietto aereo si mette in fila davanti alle ambasciate nella speranza di ottenere un visto. E per chi non può andarsene, ci sono anche problemi di sicurezza immediati. Il disfacimento del regime di Ashraf Ghani, spiega un analista occidentale, è come un via libera per le bande criminali, che possono operare in totale impunità, con rapine e sequestri. Il presidente ha chiesto alla popolazione di mobilitarsi, ma contro le granate Rpg e i kalashnikov le persone inermi che gridano dai tetti «Dio è grande» potranno ben poco.
Federico Rampini: "Ora Biden teme il ritorno dei jihadisti"
Federico Rampini
Kunduz è il terzo capoluogo di provincia in tre giorni ad essere caduto nelle mani dei talebani. Circa metà dell’Afghanistan è ormai tornato sotto il controllo di quelle milizie islamiste. Le truppe governative spesso si arrendono senza combattere, il morale è a pezzi, la corruzione dilaga ai vertici, l’impressione è quella di uno spappolamento delle forze armate ufficiali. L’ambasciata degli Stati Uniti raccomanda ai propri concittadini di evacuare il paese. Non deve ingannare l’ordine dato da Joe Biden di far bombardare dai B-52 alcune postazioni dei talebani: il presidente e il Pentagono sanno che non si riconquista l’Afghanistan dal cielo. Biden non dà alcun cenno di ripensamento rispetto alla sua decisione, annunciata ad aprile e confermata a luglio: il ritiro totale e definitivo delle truppe statunitensi avverrà nei termini previsti, cioè entro la fine di questo mese. Così stando le cose, non è inverosimile immaginare l’epilogo. Il ventesimo anniversario dell’11 settembre 2001 potrebbe coincidere con la rivincita dei talebani e il ripristino del loro potere su gran parte del territorio afgano. Questa non è una sorpresa per Biden. Quando il presidente prese la sua decisione sul ritiro, aveva sul suo tavolo un rapporto dell’intelligence Usa che diceva proprio questo: la partenza delle forze americane e Nato con ogni probabilità avrebbe provocato un ritorno al dominio dei talebani entro due o tre anni. La "guerra più lunga" dell’America (durata più dei due conflitti mondiali e del Vietnam messi assieme) è stata dunque del tutto inutile? Ma alle obiezioni Biden aveva dato la sua risposta, sotto forma di una domanda retorica: "Volete rischiare la vita dei vostri figli e delle vostre figlie? Quante migliaia vorreste mandarne ancora a combattere, forse a morire? E per che cosa?" Biden era divenuto uno scettico sulla guerra in Afghanistan molti anni fa, di sicuro quando era il vice di Barack Obama, e si oppose (invano) alla pressione dei generali che volevano un nuovo aumento di truppe su quel fronte. L’attuale presidente può sostenere, probabilmente a ragione, che anche in Afghanistan è accaduto quel fenomeno che segnò il conflitto del Vietnam e fu definito "mission creep", cioè la metamorfosi strisciante da una missione a un’altra. All’origine, quasi vent’anni fa, gli Stati Uniti e la Nato andarono a combattere in Afghanistan non perché il regime dei talebani si macchiava di orrendi abusi contro i diritti umani, opprimeva le donne e le minoranze religiose, distruggeva preziosi simboli di altre religioni come le statue millenarie dei Buddha nella valle di Bamiyan. Per quanto l’elenco dei crimini dei talebani si possa allungare ben oltre, quello che fece scattare l’intervento militare dell’Alleanza atlantica, fu l’aver dato ospitalità logistica e protezione ad Al Qaeda quando Osama Bin Laden preparava l’attacco agli Stati Uniti. I dirottamenti multipli, la distruzione delle Torri gemelle a New York, l’attentato contro il Pentagono di Washington, tutto era stato ordito e preparato dalla base afgana di Al Qaeda. I talebani si erano rifiutati di consegnare Bin Laden agli americani anche dopo che si era macchiato della strage di quasi tremila civili innocenti. L’invasione dell’Afghanistan da parte di George W. Bush e degli alleati Nato aveva quindi una legittimità e uno scopo preciso: castigare un regime terrorista che aveva colpito la sicurezza nazionale degli Stati Uniti; ed estirpare Al Qaeda dal suo suolo. Questi due obiettivi sono stati raggiunti da un decennio. I talebani offrirono una resa incondizionata già nel 2003. Bin Laden fu eliminato nel 2011, anche se nel frattempo si era rifugiato in Pakistan con la protezione dei servizi segreti di un’altra teocrazia islamica. Comunque sia, "missione compiuta" avrebbe potuto dirlo Barack Obama nel 2011 e ritirarsi dall’Afghanistan: questa allora era la posizione di Biden. Ma nel frattempo era avvenuto il "mission creep", l’allargamento strisciante della missione originaria. Un’ala sinistra umanitaria si era messa in testa di trasformare l’Afghanistan in una nazione modello per il rispetto dei diritti umani; per la destra dei neoconservatori era un tassello di un piano geostrategico più vasto teso a ridisegnare gli equilibri del Medio Oriente. Sono quelli che oggi accusano Biden di fallimento. Le critiche al presidente, di aver "perso la guerra in Afghanistan", vengono da questi due fronti contrapposti. La sinistra umanitaria, cioè la stessa che era solita denunciare le guerre americane come operazioni imperialiste, ora accusa Biden di abbandonare il popolo afgano al suo destino, in particolare le donne che grazie all’invasione Nato avevano il diritto allo studio e altre parità. I falchi di destra accusano Biden di ritirata di fronte al nemico – sorvolando sul fatto che già Donald Trump aveva preso le distanze da tutte le guerre imperiali dell’èra Bush.
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