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La Stampa Rassegna Stampa
05.08.2021 Gaza: ecco il regno del terrore di Hamas
La disinformazione di Stefano Stefanini

Testata: La Stampa
Data: 05 agosto 2021
Pagina: 19
Autore: Stefano Stefanini
Titolo: «L'ira dei giovani palestinesi: 'Ora basta con l'apartheid'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/08/2021, a pag. 19, con il titolo "L'ira dei giovani palestinesi: 'Ora basta con l'apartheid' ", il commento di Stefano Stefanini.

Stupisce leggere sulla Stampa un articolo tanto disinformato. Stefanini riconosce che a Gaza, da dove gli israeliani sono usciti unilateralmente nel 2005, "Hamas è il carceriere", allo stesso tempo però scrive di "apartheid" e rilancia senza obiezione la definizione di "prigione a cielo aperto", utilizzata sovente per demonizzare Israele. Anche la supposta "discriminazione" dei cittadini arabi in Israele esiste soltanto nella penna del giornalista e nella vulgata contro Israele diffusa nel mondo arabo e in Occidente.

Ecco l'articolo:

Immagine correlata
Stefano Stefanini

Monde - Gaza : le Hamas annonce un « accord » pour mettre fin à «  l'escalade » avec Israël - Le Télégramme
Gaza City

C’è una questione palestinese, ma le Palestine sono molte. Coabitano a disagio accanto o dentro Israele, in rapporti ben diversi. A Gerusalemme l'abbraccio della storia e delle fedi è inestricabile, malgrado il muro che taglia in due la comunità palestinese. Nella macchia di leopardo della Cisgiordania i coloni hanno esportato fra brulle alture bibliche un'improbabile normalità suburbana circondata dai tradizionali villaggi arabi. I due si guardano in cagnesco senza aggredirsi. Gli israeliani si sentono al sicuro con un po' di filo spinato e molte videocamere.

Chi sa come stanno le cose spiega che il merito è soprattutto della collaborazione di intelligence e di sicurezza con l'Autorità Palestinese. Ramallah non vuol vedere nei Territori che ancora controlla terrorismo e violenza, specie se collegati a Hamas. Proteggendo i tutt'altro che amati coloni protegge sé stessa. Gli israeliani la puntellano malgrado l'inesistente dialogo politico e il clientelismo di Fatah. I movimenti di liberazione invecchiano male al potere. Presidente dal 2005, dopo Yasser Arafat, Mahmoud Abbas evita le elezioni come la peste. Sa che le vincerebbe Hamas. Gli israeliani lo considerano un leader troppo debole per negoziare ma preferibile a terrorismo e razzi. Una mano lava l'altra. Possibilmente senza darlo a vedere. La pace fredda consente a israeliani e palestinesi la scomoda vicinanza della West Bank. La guerra a sprazzi di Hamas li separa rigidamente a Gaza. Nel 2005 furono evacuati forzosamente circa 9000 coloni, insieme alle installazioni militari delle Idf, e Israele cedette unilateralmente il controllo della Striscia all'Autorità Palestinese. Due anni dopo Hamas la espropriò violentemente. Non ci sono più israeliani, ma Gaza è diventata la «grande prigione di due milione di palestinesi», racconta un ex-alto ufficiale dell'Idf. O due milioni e mezzo? Nessuno lo sa. Hamas è il carceriere, ma anche — ed è la sua forza—il fornitore di servizi sociali, sanitari, scuole con efficienza ben superiore al malgoverno di Fatah. Ammucchiati in 365kmq semidesertici, i due milioni e più di abitanti dipendono dall'assistenza internazionale e dalla rete elettrica israeliana. Le merci passano per Rafah nel Sinai egiziano e Karem Shalom in Israele, dal secondo il grosso. Il transito è chiuso quando Hamas attacca, altrimenti aperto. È un'operazione massiccia.

Non ci deve essere contatto diretto fra i due lati. Gli autotreni arrivano e scaricano sul versante israeliano; le merci vengono scrupolosamente controllate con cani e apparecchiature elettroniche; ricaricate e trasportate attraverso 500 metri "igienizzati"; riscaricate e ricaricate su una terza flotta di autotreni e autisti della Striscia per arrivare a destinazione. A Karem Shalom c'è sempre il rischio razzi con 16' dall'allarme per correre nei ripari, tanti e vicinissimi. I rifugi sono ormai in tutte le città israeliane. Ogni sei miglia si guadagna la stessa manciata di secondi. Il che da un paio di minuti scarsi agli abitanti di Tel Aviv. C'è la difesa missilistica di Iron Dome ma qualche razzo scappa; bisogna sempre correre. Corre anche chi vive a Kfar Bara, nelle vicinanze di Tel Aviv. Sono tutti arabi ma i razzi sono ciechi. Sono cittadini israeliani di passaporto e pieno diritto, tranne che di fare il servizio militare. Le autorità di questo `villaggio" tra i 20 e i 30 mila abitanti hanno rivendicazioni concrete. La comunità si sente sfavorita nelle infrastrutture e nello sviluppo industriale. Adesso ripone molte speranze alla coalizione di governo con l'inedita partecipazione di Ra'am, partito islamico — stessa famiglia della fratellanza musulmana. Gli arabo-israeliani, circa il 20% della popolazione, si sentono discriminati, cittadini di seconda classe. Molti israeliani non arabi lo riconoscono. Superare la disuguaglianza interna è un banco di prova di questo governo che, abbracciando destra e sinistra pur di escludere Netanyahu, sta sfidando con successo la legge di gravità — ha appena approvato il bilancio per la prima volta in tre anni. Ma la stessa corda comincia a risuonare anche con i palestinesi non cittadini. E questo è uno scoglio molto più difficile. Vogliamo uguaglianza e non indipendenza, passaporto israeliano e non Stato palestinese, uno Stato solo senza apartheid, dice un giovane palestinese di Gerusalemme che anima un incontro nell'Educational Bookshop del quartiere arabo.
Non è estremista ma rivoluzionario. «Ho detto a mio padre: avete perso [con i due Stati] adesso tocca a noi. Voglio essere parte di Israele come palestinese». Si sente un'eco del miglior '68: l'immaginazione al potere. Fra israeliani e palestinesi ci vorrà molta immaginazione. Più di quella che usiamo noi europei. Le nostre frasi fatte si scontrano con una realtà sfaccettata. Lo Stato unico mette in discussione il sogno nazionale palestinese e quello ebraico israeliano. I due Stati, israeliano e palestinese, restano la soluzione più rispettosa delle rispettive identità e del binomio democrazia-ebraismo di Israele. Forse non l'unica. La strada è comunque molto più tortuosa di qualsiasi "roadmap" tracciata a tavolino a Washington o a Bruxelles. Sta a israeliani e palestinesi trovarla. Dall'esterno possiamo aiutarli. Ma con modestia.

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