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La Repubblica Rassegna Stampa
03.08.2021 Gerusalemme, il problema delle case di Sheikh Jarrah: si discute per trovare un accordo
Cronaca di Sharon Nizza

Testata: La Repubblica
Data: 03 agosto 2021
Pagina: 1
Autore: Sharon Nizza
Titolo: «Sheikh Jarrah, la Corte suprema israeliana rinvia la decisione: un'altra settimana per cercare un accordo»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA online di oggi, 03/08/2021, la cronaca di Sharon Nizza dal titolo "Sheikh Jarrah, la Corte suprema israeliana rinvia la decisione: un'altra settimana per cercare un accordo".

Immagine correlata
Sharon Nizza

Fichier:Jerusalem vista.jpg — Wikipédia
Sheikh Jarrah

Nessuna decisione presa e aggiornamento della Corte: è l’esito dell’atteso dibattimento che si è svolto oggi presso la Corte Suprema israeliana sulla controversia di Sheikh Jarrah, il quartiere di Gerusalemme est diventato oggetto dell’attenzione internazionale nei mesi scorsi. La disputa attuale riguarda quattro famiglie palestinesi, ma potrebbe determinare il destino di almeno altre nove famiglie che si trovano in condizioni simili e che rischiano di essere evacuate dalle loro case, secondo quanto stabilito da due precedenti gradi di giudizio che hanno confermato la proprietà ebraica dei lotti contesi. Durante le oltre cinque ore di udienza, i corridoi della Corte sono inondati dai giornalisti della stampa mondiale, dai parlamentari della Lista Araba Unita e del Meretz (quest’ultimo oggi parte della coalizione di governo) e dai manifestanti a sostegno delle famiglie palestinesi, tra cui diverse organizzazioni israeliane per i diritti umani che si battono per la causa da decenni. All’udienza si sono presentati anche diplomatici delle rappresentanze europee a Gerusalemme, tra cui Italia, Danimarca, Francia, Spagna, Germania, “per esprimere solidarietà alle famiglie contro una pratica illegale secondo il diritto internazionale”, come dice un’esponente della missione dell’Unione Europea.

La Corte si era riunita per stabilire se accogliere la richiesta di appello presentata dalle famiglie per impugnare la sentenza. Invece, il collegio dei tre giudici ha tentato di raggiungere una mediazione tra le parti, per cui ai palestinesi sarebbe confermato lo status di “inquilini protetti” per tre generazioni, ma riconoscendo la proprietà ebraica a cui verserebbero un affitto simbolico di poche centinaia di sheqel l’anno. “Il compromesso darà la possibilità di respirare per un buon numero di anni e fino ad allora si potrà raggiungere un accordo immobiliare o chissà, magari si arriverà alla pace”, ha detto il giudice Amit. Le famiglie non vogliono accettare la mediazione perché rivendicano la proprietà sulle case in questione. La Corte ha dato una settimana di tempo per cercare di fare dialogare le parti. “I giudici stanno solo cercando di evitare di assumersi le proprie responsabilità, sono preoccupati dall’impatto mediatico e vogliono spingerci a farci pagare l’affitto ai coloni”, dice fuori dall’aula Mohammad, uno dei gemelli al-Kurd diventati simbolo della battaglia, con milioni di follower sui social. “Non ho nessuna fiducia nella Corte, sono coloni che parlano a coloni”. La vicenda si trascina nei tribunali da oltre trent’anni e nel 2009 già due famiglie palestinesi erano state sfrattate in un altro procedimento legale simile a quello in corso. Solo nei mesi scorsi però la battaglia ha raggiunto l’opinione pubblica globale, con l’hashtag #savesheikhjarrah diventato virale, dopo che il quartiere è stato al centro della tensione che ha portato il 10 maggio all’inizio di un nuovo scontro tra Israele e Hamas.

Dopo giorni di scontri tra la polizia israeliana e i palestinesi che protestavano contro la minaccia di sfratto, Hamas ha lanciato dei razzi verso Gerusalemme dando il via a 11 giorni di conflitto terminati con un cessate il fuoco che ancora non è del tutto cementato e rischia di esplodere nuovamente. Per questo, la valutazione è che ci sia un interesse politico a posticipare quanto possibile qualsiasi decisione che possa rendere esecutivo lo sfratto, per evitare di gettare benzina su una situazione già incandescente. Nei giorni scorsi, il Jerusalem Post aveva riportato una fonte vicina al premier Naftali Bennett, subentrato a Netanyahu a metà giugno, secondo cui il governo intendeva placare la controversia e non procedere allo sfratto. Sebbene lo Stato non sia parte in causa, se anche la Corte respingesse il ricorso delle famiglie palestinesi, spetta al ministero della Sicurezza Interna autorizzare de facto le operazioni di sfratto. Il nuovo esecutivo, che si regge su una maggioranza risicata ed estremamente eterogenea che include esponenti della destra nazionalista così come il partito islamista Ra’am, non intende affrontare nessuna questione altamente controversa nei prossimi mesi, almeno fino a quando non avrà superato il primo grande ostacolo, ovvero l’approvazione della finanziaria entro novembre.

Secondo l’accordo di governo, se il budget non venisse approvato, l’esecutivo cadrebbe automaticamente. “Ci sono molti modi con cui la Corte può prendere una decisione che faccia giustizia”, dice a Repubblica Eyal Raz, attivista israeliano che da oltre 15 anni manifesta tutti i venerdì a Sheikh Jarrah. “Ma la decisione va presa a livello politico, cambiando le leggi che indirizzano i giudici”. Nel 1956, i giordani, che dopo la guerra del ’48 occuparono la parte orientale di Gerusalemme, costruirono su alcuni terreni fino al ’48 abitati da ebrei, 28 abitazioni per accogliere famiglie palestinesi, in cambio della rinuncia allo status di rifugiato rilasciato dall’Unrwa. Con la guerra dei Sei giorni nel ‘67, Israele conquista Gerusalemme Est dalle mani della Giordania, annettendola al resto della città che considera capitale unica e indivisibile. In virtù della “legge sulle proprietà degli assenti” del 1950, che consente a Israele di confiscare i beni di “chi ha lasciato le proprietà per recarsi in un Paese nemico”, le abitazioni in questione sono tornate in mano agli eredi dei proprietari ebrei, che in seguito ne hanno venduti i diritti ad associazioni legate alla destra israeliana che vogliono ricreare in loco l’insediamento ebraico nato nel 1875 intorno a quella che la tradizione ebraica identifica come la tomba di Simeone il Giusto. “L’ingiustizia deriva dal fatto che lo stesso diritto a reclamare le proprietà antecedenti al 1948 non è riservato ai palestinesi, che rischiano di diventare profughi due volte”, dice Raz.

“Nel 1947 i Paesi arabi hanno rifiutato la Risoluzione di Spartizione dell’Onu e dichiarato guerra a Israele. Non è una condizione unica al mondo: la popolazione locale passata sotto uno Stato nemico (la Giordania in questo caso, ndr) ha perso il diritto alla proprietà nel momento in cui l’aggressore è uscito sconfitto dalla guerra”, dice Jonathan Yosef, il nipote dello storico rabbino capo sefardita d’Israele Ovadia Yosef che abitava qui negli anni ‘40. “Chi parla di pulizia etnica non sa cosa dice: agli inquilini viene offerto di rimanere pagando una cifra simbolica. Ma la proprietà è nostra e questo ci va riconosciuto”. Tra gli inquilini minacciati dallo sfratto, c’è chi punta il dito anche contro l’ex Paese nemico d’Israele. “La Giordania ha le sue responsabilità perché ha tergiversato per anni e non ha mai compiuto la registrazione a nome nostro delle proprietà”, ci dice Samira, una delle inquiline su cui pende una causa separata che pure potrebbe concludersi con lo sfratto. Nella richiesta di appello, l’avvocato Sami Ershid, che rappresenta i ricorrenti, ha inserito un nuovo documento che la Giordania ha fatto recapitare di recente alle famiglie, che dimostrerebbe che Amman stava procedendo alla registrazione della proprietà a nome degli inquilini, procedura interrotta con lo scoppio della guerra nel 1967. Non è chiaro se si tratti di un documento che potrà essere ritenuto rilevante in una fase così avanzata del procedimento giudiziario. Quello che sembra profilarsi è un continuo rinvio della saga giudiziaria, almeno finché sarà al centro dell’attenzione internazionale.

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