Riprendiamo dall' ESPRESSO di oggi, 01/08/2021, a pag.48 con il titolo "Da dove è arrivato Trump" l'intervista di Alberto Flores d'Arcais; da LIBERO, a pag. 12, il commento di Andrea Morigi dal titolo "Trump senza rivali fra i Repubblicani".
Ecco gli articoli:
Donald Trump
L'ESPRESSO - Alberto Flores d'Arcais: "Da dove è arrivato Trump"
Alberto Flores d'Arcais
Ian Buruma
Non ho sensazioni particolari, anche vent'anni fa era chiaro che fosse uno di quei momenti che avrebbe avuto un grande impatto nella Storia, che niente sarebbe stato più come prima. Non tanto per la grandezza e l'importanza dell'evento: se ci pensiamo, nel terremoto in Giappone morirono oltre 30mila persone, eppure dopo un po' non se ne è parlato più. A New York ci sono stati poco meno di 3mila morti ma è stato un gradissimo shock, devastante anche psicologicamente perché è stato un attacco agli Stati Uniti stessi». Vent'anni dopo l'11 settembre 2001 Ian Buruma, uno dei più lucidi intellettuali a cavallo tra Stati Uniti ed Europa (è olandese, vive da molti anni a New York) parla con l'Espresso di cosa è rimasto oggi del giorno "che ha cambiato il mondo".
Se pensa a quel giorno cosa le viene in mente? «Quanto allora, improvvisamente, la vita sia cambiata. Non solo da un punto di vista della strategia politica e militare - il governo degli Stati Uniti ha usato l'11 settembre come pretesto per dare il via a una disastrosa guerra in Medio Oriente - ma come sia cambiata la vita di ogni giorno. Gli americani non erano abituati ad essere attaccati, non pensavano fosse proprio possibile, per cui sono rimasti letteralmente traumatizzati da un avvenimento del genere. Ed una delle cose che è cambiata all'improvviso è stato il ruolo e il concetto della sicurezza nella vita di ogni cittadino».
Cosa è cambiato tra sicurezza e libertà? «L'America che si faceva vanto di essere, e lo era, libera e aperta, ha scoperto di dover fare i conti, anche nelle faccende quotidiane, con quelli che in Francia vengono chiamati le petit fonctionnaire, i piccoli burocrati, che ogni giorno interferiscono nella nostra vita. Qualcosa che non aveva mai appartenuto alla American Way of Life. Un nuovo modo di vita che è iniziato dai doormen, i portieri di New York da sempre una figura centrale per la vita quotidiana, dai guardiani nei grattacieli, dai vigilantes di negozi e palazzi. All'improvviso chiunque avesse a che fare in qualche modo con la sicurezza ha acquisito un potere che prima non aveva, il tutto condensato in uno slogan: rendere sicuro ognuno di noi. Questo penso che abbia cambiato la natura della società negli Stati Uniti».
Solo negli Stati Uniti o anche in Europa ed altre aree del mondo? «Anche in altri posti ma direi soprattutto negli Stati Uniti. In Francia, per fare un altro esempio che conosco, la gente era abituata a vedere per le strade poliziotti armati anche di mitra, è uno Stato, una Republique, che ha sempre interferito con i propri cittadini, la cui presenza è stata sempre evidente. In America invece non era mai stata così ovvia».
Allora e per molti anni si è detto che l'11 Settembre ha cambiato tutto, che niente sarebbe più stato come prima. Vent'anni dopo è ancora vero? «No, non credo che abbia cambiato ogni cosa, non ha cambiato tutto, non è così. Dietro quella frase, ripetuta in modo ossessivo, c'era anche una scusa: avere la possibilità di fare alcune cose di grande impatto, cose che in una situazione normale sarebbero state difficili».
Ad esempio? «L'idea di invadere l'Iraq e di rovesciare Saddam Hussein e il suo regime era una vecchia idea, un'idea che veniva coltivata da anni in tutti e due gli schieramenti politici, sia tra i repubblicani che tra i democratici. L'11 settembre è stata una scusa per farlo. Quello che ha cambiato radicalmente e drammaticamente le cose non è stato l'11 Settembre in sé, ma le conseguenze che quel giorno ha portato, tra le quali la guerra in Iraq a mio avviso è stata la più importante».
Poche settimane dopo l'11 settembre gli Usa hanno iniziato la guerra in Afghanistan. Per il ventennale il presidente Biden ha annunciato il ritiro totale dei soldati americani. Questa guerra infinita può essere definita un successo per gli Stati Uniti? «No, non credo che sia stato un successo. Il prossimo 11 settembre sarà solo la fine di una illusione che è stata - in parte lo è ancora - presente negli Stati Uniti almeno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Un'illusione molto forte tra i democratici, forse soprattutto tra i democratici più che tra i repubblicani: l'idea che gli Stati Uniti possano usare il proprio potere, incluso quello militare, per diffondere la democrazia nel mondo, per plasmarlo ad immagine dell'America.».
E' un'idea sbagliata? «Non ha funzionato. L'idea di intervenire in altri paesi con forze militari in nome della libertà e della democrazia è una cosa in cui i democratici americani hanno creduto e credono ancora. È una policy che penso sia arrivata ad una fine proprio con la guerra in Afghanistan e con il ritiro delle truppe Usa annunciato da Biden. La cosa principale che ha distrutto questa idea non è stato però l'Afghanistan».
Che cosa? «La guerra in Iraq. Ed ha inciso anche sul fatto che Donald Trump sia stato eletto presidente».
Nonostante siano passati molti anni? «Trump è stato eletto per molte ragioni, ovviamente. La guerra in Iraq, prima ancora di quella in Afghanistan, ha avuto un peso per portarlo alla Casa Bianca. La gente, soprattutto quella più povera nel Sud degli Stati Uniti, ha percepito che le guerre all'estero stavano sacrificando soprattutto i giovani più disagiati; Trump ha promesso di farle finire, di riportare tutti a casa e su questo punto il voto lo ha certamente premiato. Sono convinto che la guerra in Iraq abbia avuto una diretta conseguenza sull'elezione di Trump».
Biden è su quella linea? «Ha una politica estera opposta. Però con il ritiro dall'Afghanistan Joe Biden ha dimostrato che l'idea di un intervento militare perla democrazia e la libertà è oggi discreditato per la sinistra come lo è stato per la destra».
Vent'anni fa gli Usa erano l'unica superpotenza mondiale dopo il crollo dell'Unione Sovietica. Oggi hanno un avversario come la Cina. Quanto sono cambiati il mondo e i rapporti di forza in vent'anni? «La Cina è diventata un avversario serio, una potenza mondiale già nei decenni precedenti, l'ascesa di Pechino è iniziata ben prima degli attacchi di Al Qaeda. L'11 settembre ha cambiato molte cose, ma lo stesso è accaduto con il crollo del Muro e il collasso dell'Unione Sovietica. È stato allora che gli Usa sono diventati l'unica superpotenza mondiale».
La Cina può superare gli Usa? «La Cina è diventata una superpotenza velocemente in termini storici, ma in modo graduale prima e soprattutto dopo l'11 settembre. Sicuramente vent’anni fa l'America aveva ancora l'illusione di essere l'unica superpotenza al mondo, convinta che non ci fosse nessuno in grado di competere con gli Stati Uniti. Questo è uno dei motivi per cui nell'ultimo decennio gli Stati Uniti sono entrati nel panico vedendola Cina diventare una vera superpotenza mondiale. La Cina probabilmente è una minaccia meno grande di come viene raccontata, ma non c'è dubbio che oggi nessuno pensa che gli Usa siano la sola superpotenza, neanche in termini puramente militari. Detto questo non c'è ancora una rivalità alla pari, neanche vent’anni dopo il 2001».
C'è ancora qualcosa di poco chiaro, di non detto sull'11 settembre? «Una questione mai chiarita fino in fondo è il legame dei terroristi - dei terroristi islamici - con alcuni governi, con apparati militari».
Al Congresso c'è chi vuole desecretare i file che riguardano l'Arabia Saudita. Troppi segreti? «Capisco le richieste che arrivano dal Congresso, anche se personalmente non ho conoscenze dirette sull'argomento. Mi sembra però abbastanza improbabile che i sauditi abbiano incoraggiato un attacco diretto agli Stati Uniti, perché troppo importanti - basti pensare agli aiuti economico-militari - per il regno. Quello che è più probabile è che i sauditi abbiano trovato un qualche accordo con l'ala più radicale dell'islamismo, lasciandogli libertà di agire all'estero, senza entrare in contrasto con gli interessi nazionali, ottenendo in cambio che non agissero all'interno del regno. Questo credo sia plausibile, non che abbiano avuto un ruolo diretto nell'armare le mani dei terroristi di Al Qaeda».
Gli americani che sono diventati maggiorenni negli ultimi anni, che vanno al college, sono nati dopo l'attacco alle Twin Towers. Per loro il terrorismo è ancora importante? «Oggi il terrorismo non è una minaccia esistenziale. ll terrorismo può fare molti danni, può uccidere molte persone, il problema che resta ancora oggi è su come lo combatti. Per tornare a una domanda precedente, su quanto l'11 settembre ha cambiato il mondo, il modo migliore per descriverlo è ricordare le due grandi illusioni americane: una, come ho detto, è il sistema con cui hanno usato gli attacchi per ridisegnare il mondo a propria immagine, che è la politica usata da dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’altra è quella che l'America sia invulnerabile, un rifugio per chi arriva da situazioni difficili, da crisi umanitarie, una fortezza dai confini inespugnabili. Pearl Harbor è stato un grande shock perché ha dimostrato che l'America era vulnerabile, ma avvenne alle Hawaii, molto lontano dalla terraferma americana. L'11 settembre ha colpito New York e Washington e questo ha creato ovunque nel paese un vero e proprio panico».
I giovani parlano d'altro: clima, genere, razzismo, pandemia. «Certo per chi è nato dopo il 2001 il terrorismo è qualcosa di lontano, come la Seconda Guerra Mondiale per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta. Ovvio che i giovani di oggi abbiano altre priorità. Le cose possono però cambiare molto velocemente, basterebbe un nuovo attacco terroristico sul suolo americano: in quel caso ci sarebbe la stessa reazione di panico anche tra i giovani».
LIBERO - Andrea Morigi: "Trump senza rivali fra i Repubblicani"
Andrea Morigi
Lo hanno silenziato in tutte le maniere, sui social network, sulla grande stampa e sulle televisioni nazionali, certificando il declino di Donald Trump a partire dalla sconfitta della sua candidata alle primarie dei Repubblicani in Texas, Susan Wright, superata dall'avversario, Jake Ellzey, deputato del parlamento texano. Lo si vedrà la settimana prossima, quando il candidato dell'ex presidente, Mike Carey, si confronterà in Ohio con diversi candidati repubblicani per il se; o lasciato libero da un deputato dimissionario. Qualche segnale di crisi di consenso, forse si può cogliere nella partecipazione di due deputati Repubblicani alla Commissione che indaga sull'assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso. Liz Cheney, figlia dell'ex-vice presidente Dick Cheney, e il rappresentante dall'Illinois, Adam Kinzinger, sono l'espressione di una piccola ma crescente minoranza antitrumpiana, che giudica un "fallimento morale" per il partito aver fatto propria la disinformazione legata ai risultati elettorali e alle teorie del complotto di QAnon. Ma è troppo presto per dire che esiste una corrente di conservatori pronta a sostituire Trump formando una classe dirigente. Ieri perfino il New York Times ha dovuto ammettere che l'ex presidente è ancora il più forte fra i repubblicani. Il metro di misura utilizzato è quantitativo, ma negli Stati Uniti funziona infallibilmente: Trump ha raccolto 56 milioni di dollari online nei primi sei mesi dell'anno, più di qualsiasi altro esponente del Gop. L'ex presidente è ancora popolare soprattutto fra la sua base.
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