Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi 30/07/2021, a pag.13 con il titolo 'Il mondo faccia di più per fermare il genocidio del popolo uiguro', l'intervista di Gianni Vernetti a Dolkun Isa.
Gianni Vernetti
Dolkun Isa
Dolkun Isa, 56 anni, è presidente del World Uyghur Congress, l’organizzazione che rappresenta le migliaia di uiguri in fuga dalla persecuzione della Repubblica Popolare Cinese. Verso la fine degli anni ‘80 promosse le prime manifestazioni studentesche alla Xinjiang University di Urumqi contro le politiche discriminatorie di Pechino nei confronti della minoranza uigura. Fu espulso dall’Università poche settimane prima della laurea e per vivere aprì un ristorante, che dopo breve tempo venne chiuso dalle autorità con l’accusa di essere un centro di spionaggio internazionale. Costretto alla fuga in Turchia, ha fondato la “East Turkestan Student Organisation” (East Turkestan è la denominazione storica del Xinjiang prime dell’annessione cinese, ndr ) per poi stabilirsi a Berlino dove nel 1996 ottenne l’asilo politico. Da qui coordina la diaspora uigura nel mondo.
Dopo anni di silenzio, il mondo ha iniziato a conoscere la tragica realtà del Xinjiang. Ci può raccontare quale sia oggi la situazione della minoranza uigura in Cina? «È terribile. Stimiamo che vi siano circa 3 milioni di cittadini di etnia uigura e altre minoranze che vivono in Xinjiang (kazaki, ndr ) internati in campi di concentramento. Le nostre stime sono confermate da molti analisti internazionali e dalle intelligence di diversi Paesi del mondo. Dobbiamo chiamare le cose col loro nome: si tratta di un genocidio accuratamente pianificato». Il Premio Pulitzer è stato assegnato quest’anno a BuzzFeedNews e ad Alison Killing che hanno identificato e mappato oltre 260 campi di concentramento in Xinjiang. «È stato un lavoro importante e vorrei anche citare il lavoro del ricercatore tedesco Adrian Zenz e la ricerca dell’Aspi (Australian Strategic Policy Institute). Tutti questi studi smontano la narrativa cinese e svelano l’esistenza di un grande programma di internamento delle minoranza uigura. Noi stimiamo che vi siamo in tutto il Xinjiang oltre mille campi di concentramento e solo nel campo di Dawanching, alle porte di Urumqi, sono detenuti 114mila cittadini uiguri».
Può raccontarci le modalità in cui è avvenuta questa “escalation” in Xinjiang contro la minoranza uigura? «La svolta radicale è avvenuta con la presa del potere di Xi Jinping nel 2014. Dal quel momento è stata pianificata la repressione sistematica e su larga scala che ha coinvolto un grande apparato militare e civile. La prima fase è stata più “soft”, per testare le reazioni internazionali: alcune migliaia di uiguri sono stati costretti a partecipare a corsi di indottrinamento politico per ottenere certificati grazie ai quali potersi muover con più libertà. Il mondo è stato in silenzio e Pechino è passata a una fase più dura. Con la scusa della Legge Antiterrorismo sono state adottati provvedimenti durissimi contro uiguri e tibetani. Sono iniziate le incarcerazioni di massa, i check-point e le violenze quotidiane: il digiuno del ramadan o una telefonata internazionale erano motivi sufficienti per essere incarcerati. Un’ulteriore svolta c’è stata quando Xi ha nominato a capo del Partito nel Xinjiang, Chen Quanguo, che si era già distinto per la repressione in Tibet: fine dei voli internazionali, interruzione di Internet, costruzione di campi di concentramento, internamento di centinaia di migliaia di civiili, sterilizzazioni forzate, uccisioni arbitrarie, abusi sessuali».
Cosa è successo alla sua famiglia e ai suoi amici rimasti in Xinjiang? »Nel 2017 ho saputo da Radio Free Asia che mia madre era morta in un campo di concentramento. Mio fratello più giovane è stato condannato al carcere a vita e dal 2016 non ho più alcuna notizia. Un altro mio fratello è stato condannato a 20 anni. Essere miei parenti è sufficiente per essere incarcerati». Quali notizie ha sull’utilizzo del lavoro forzato in Xinjiang? «L’80% del cotone prodotto in Cina proviene dal Xinjiang ed è tutto svolto con il lavoro forzato di 580mila uiguri. Se pensiamo che il 22% del cotone mondiale è prodotto qui, ci possiamo rendere conto dell’impatto sull’economia globale. È una forma di nuovo schiavismo. In più, dal 2019 il governo cinese ha iniziato a costruire fabbriche accanto ai campi di concentramento ampliando l’utilizzo del lavoro forzato su altri settori, come telefonia ed energia».
Ci può raccontare qualcosa sull’utilizzo delle nuove tecnologie di riconoscimento facciale? «Pechino ha testato in Xinjiang ogni nuova tecnologia di sorveglianza e di repressione digitale: riconoscimento facciale e vocale; installazioni di telecamere di fronte ad ogni appartamento abitato da una famiglia uigura. Il Xinjiang è una prigione a cielo aperto».
Cosa può dirci sulla distruzione di moschee ed edifici religiosi? «Fra il 2017 e oggi sono state distrutte oltre 8.000 moschee. Il progetto è chiaro: sradicare l’identità culturale e religiosa di un intero popolo».
La Lega Araba e molti Paesi islamici non hanno mai alzato la voce nei confronti della Cina sulle repressione degli uiguri. «È una vergogna, ma è così. La gran parte dei Paesi musulmani non solo sono stati in silenzio, ma, come nel caso di Pakistan e Arabia Saudita, hanno apertamente sostenuto la Cina nel Consiglio dei Diritti Umani Onu nel negare il genocidio contro gli uiguri. Da un lato c’è il ricatto economico di Pechino, dall’altro c’è il fatto che molti Paesi non rispettano i diritti umani a casa propria».
Il Xinjiang è attraversato dai due itinerari principali della Nuova Via della Seta: quello verso l’Europa e quello verso il Pakistan. Qual è la sua valutazione sul progetto? «La “Nuova Via della Seta” è un progetto di espansione economica e politica di Pechino. E il Xinjiang è nel cuore di questo progetto: qui passa la ferrovia fra Pechino e l’Europa e anche il corridoio con il Pakistan verso il porto di Gwadar, che rappresenta l’accesso all’Oceano Indiano. Noi uiguri siamo vittime di questa geografia: Xi è pronto a tutto per difendere questo progetto, compreso l’annichilimento di un popolo».
Il Congresso Usa e l’Ue hanno sanzionato Pechino per le violenze contro gli uiguri. Crede che l’Occidente dovrebbe fare di più? «L’Occidente si sta accorgendo che la minaccia di Pechino non è solo pericolosa per gli uiguri, i tibetani, per Taiwan o per i residenti di Hong Kong ma per l’intera comunità delle democrazie. Il governo cinese vuole esportare il proprio modello autoritario. Le prime azioni di Usa ed Europa sono molto positive ma non sufficienti. Servono ulteriori sanzioni individuali contro chi commette orrendi crimini e anche sanzioni economiche. La Cina è una minaccia per il mondo libero, è tempo per tutti di aprire gli occhi».
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