Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 27/07/2021, a pag. 1-14, con il titolo "'Salute e libertà'. Nella Cuba che sogna la caduta del regime", la cronaca di Pietro Del Re.
Pietro Del Re
"Cuidado, hay chivatones » , attento agli spioni, ai delatori, avverte Juan, gli occhi lampeggianti d’ira e la voce aspra. È lui che assieme ad altre centinaia di persone, domenica 11 luglio, al grido di «libertà» e «abbasso la dittatura», ha per primo sfidato il governo cubano sfilando per le strade di San Antonio de los Baños. Da qui, soprattutto grazie ai social media, le proteste si sono poi replicate in molti altri centri dell’isola caraibica, anche nelle zone rurali, dove il partito comunista gode da sempre di un solido appoggio. A mezz’ora dall’Avana, la cittadina è circondata da campi di una terra fertile ma per lo più incolta perché, come spiega Juan spegnendo il motore di un trattore preistorico, non ci sono né sementi né concime né mezzi adeguati per lavorarla. «La rivolta è partita dal nostro borgo per caso, ma la miccia poteva essere accesa ovunque. A Cuba stiamo affogando tutti insieme perché il regime non tollera chi rifiuta l’obbedienza cieca, il conformismo, la conservazione del sistema ». San Antonio de los Baños consiste in un paio di chiese malandate, in poche strade strette tra case lillipuziane color pastello e in un fiumiciattolo che nonostante la stagione delle piogge sembra lo scolo di una fogna. Da due settimane è assediato dalla polizia che ne controlla gli ingressi ed è stato infiltrato da decine di chivatones inviati dalla capitale per estirpare il germe di chi diffonde «falsa narrativa », come ha specificato il presidente Miguel Díaz-Canel, succeduto a Raúl Castro lo scorso 19 aprile anche nella carica di segretario generale del Partito comunista. Dice ancora Juan: «Il giorno dopo la protesta, gli agenti in tenuta anti-sommossa hanno rastrellato casa per casa. Se per reprimere le proteste interne Fidel Castro inviava gli operai, oggi il regime ricorre a poliziotti che somigliano a guerrieri Ninja».
Secondo l’attendibile Ong per i diritti umani Cubalex, il cui sito è oscurato da giorni, nel Paese sono state fermate seicento persone. Molte sono già state rilasciate dopo esser state brutalmente picchiate nei commissariati. Le altre, quelle che il regime riconosce come potenziali leader, siano essi giornalisti, blogger o influencer, vengono in questi giorni processati per direttissima e condannati a pene di almeno un anno di galera. Tra questi, figura il giovane fotografo Anyelo Troya, accusato di aver realizzato il video sull’inno della rivolta, Patria y Vida, cantato da rapper cubani storpiando lo slogan con cui Fidel cominciava e chiudeva ogni sua concione, Patria o Muerte. «Le autorità si comportano come la Stasi, la polizia segreta dell’ex Germania orientale. A Cuba stiamo compiendo un grande passo indietro». Come all’Avana, anche a San Antonio de los Baños, soprattutto nella piazza centrale, ombreggiata da un maestoso albero di fuoco in fiore, si snodano ovunque lunghe code, o colas : davanti al forno, al macellaio, all’unica farmacia e al suo piccolo supermercato. I negozi sono semivuoti, e la poca merce rimasta è spesso contingentata. «Siamo costretti a restare in fila anche un giorno intero, ed è nata una nuova professione, quella dei coleros che cedono a pagamento il posto dopo ore d’attesa. Quando finalmente arriva il suo turno, la gente acquista tutto quello che trova, per poi rivenderlo al mercato nero». Ora, questi lunghi e ubiqui assembramenti favoriscono la diffusione del Covid, tanto che Cuba ha raggiunto un tasso di contagio pari al 15%, il più alto nel continente americano. Con undici milioni di abitanti si registrano novemila casi al giorno, che stanno facendo collassare un sistema sanitario già malconcio, con i malati che intasano i corridoi degli ospedali dove mancano ossigeno, ventilatori e farmaci. Incontriamo l’epidemiologo Eliecer, nome di fantasia come quello di Juan, su una panchina del Parco Centrale della capitale. Prima di rispondere alle nostre domande si guarda intorno con circospezione: l’aver accettato di incontrarci è la sua forma di protesta ma Eliecer ha paura, perché qui sono tutti ricattabili, tutti punibili. «Se sapessero che parlo con un giornalista straniero perderei subito il mio posto di lavoro. È anche per questo che non sono andato a manifestare», spiega il medico. «In ospedale la situazione è drammatica. Non abbiamo neanche i cateteri, l’aspirina e gli antiemetici. Inoltre, il nostro primario ci costringe a nascondere la verità sui morti di Covid».
Quando gli chiediamo se il popolo scenderà nuovamente in strada, Eliecer risponde: «Sì, perché alle richieste dei cubani, le autorità hanno risposto soltanto con la repressione. La rivoluzione è morta da tempo ma chi ci governa non s’è ancora accorto che per la maggior parte della popolazione "rivoluzionario" è ormai sinonimo di "reazionario" ». Raggiungiamo al telefono Leonardo Padura, 65 anni, il più celebre e premiato degli scrittori cubani contemporanei, i cui romanzi gialli sono il pretesto per descrivere le difficoltà che funestano la sua isola. Sostiene che le proteste non sono provocate soltanto dalle restrizioni imposte alla popolazione, dai continui tagli della corrente o dalle sofferenze create dall’emergenza pandemica. «Le manifestazioni sono il grido di una generazione che ha perso ogni illusione. Dal 1962 siamo strangolati dall’embargo americano e vittime di una campagna mediatica che travisa la realtà. Ma noi cubani dobbiamo reinventarci un avvenire possibile. Oltre a una risposta materiale è anche necessaria una soluzione ideologica che sia di buon senso. E in un momento critico come questo le persone devono poter esprimere le proprie opinioni. Per riportare la calma non si può ricorrere a soluzioni di forza come bloccare internet né tanto meno esercitare violenza contro persone non violente». «Tutto si placherà in fretta», ci dice Diana Díaz, figlia di Alberto Korda, il fotografo che immortalò Che Guevara nella sua immagine più iconica, quella che a Cuba si ritrova ancora riprodotta all’ingresso delle scuole, sui muri delle aziende e perfino sulla moneta locale. «Il governo ha già adottato le misure adeguate», aggiunge Díaz, alludendo a un paio di riforme economiche appena varate. Infatti, dalla settimana scorsa si possono liberamente importare in valigia alimenti, medicinali e prodotti per la pulizia personale senza il pagamento di dazi né limiti. Il problema è che per via della pandemia non ci sono quasi più voli per Cuba. L’altra riforma annunciata riguarda il regime degli stipendi di alcune imprese statali, che potranno premiare i dipendenti «più produttivi».
Tuttavia, questa misura si potrà applicare solo alle compagnie che fanno utili, e che sono molto poche. Immiserita dalle misure anti- Covid, la capitale sembra davvero il teatro di un’utopia fallita che né l’orgoglio né il nazionalismo riescono più ad alimentare. Il centro è presidiato da squadroni di agenti che marciano compatti, mentre sono scomparsi i turisti stranieri che erano il vero motore delle entrate di denaro. La popolazione vive nel terrore, sempre alla ricerca di uno spaccio dove grazie ai buoni di razionamento poter arraffare una pagnotta, cento grammi di fagioli secchi o una coscia di pollo surgelato. Intanto, il 14 luglio, tre giorni dopo le manifestazioni, erano già state riattivate le reti 3G e 4G e le app di messaggistica, quali Facebook, WhatsApp e Twitter. «Il governo sa bene che Internet è la sola arma di cui dispongono i cubani. Ma non ha più un centesimo e non può rinunciare agli 80 milioni di dollari al mese degli abbonamenti Wi-Fi. Internet è anche vitale per le rimesse in valuta straniera della diaspora cubana. Online è finito perfino il mercato nero», dice Alfred Morales della piattaforma Joven Cuba, dove lavorano economisti, politologi e giovani attivisti che criticano il regime pur difendendo uno stato di diritto socialista. «Il problema è che nessuno crede in Miguel Díaz-Canel, il grigio funzionario di partito che con la sua nomina ha messo fine a sessant’anni di castrismo. Per i cubani è soltanto un leader autoritario, privo di carisma ». Per questo il regime è inquieto. Sa che per mantenersi in vita deve dinamizzare l’economia e garantire alla popolazione un incremento del potere d’acquisto. Ma adesso che si sono prosciugati gli aiuti venezuelani e che Joe Biden minaccia di inasprire le sanzioni, Díaz-Canel non ha più i mezzi per amministrare il fallimento del comunismo tropicale. Se non quello, ai suoi occhi impraticabile, di sacrificare se stesso.
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