Riprendiamo dallo SPECCHIO della STAMPA di oggi, 25/07/2021, a pag.9, con il titolo "Pane, amore e nostalgia" il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Il cibo ha la memoria lunga. C'è qualcosa di alchemico che risveglia le papille gustative, e prima ancora il lavoro di testa e di mani in cucina: preparare, mangiare e ricordare i sapori della nostra vita è sempre un viaggio nel tempo. Contest di cucina, programmi televisivi, consigli per gli acquisti in mezzo mondo indicano tutti la medesima direzione, pur in una grandissima varietà di colori: le radici contano. E in fatto di cibo contano più che mai. Le nuove generazioni di afroamericani, ad esempio, stanno dettando un autentico, esplosivo trend topic in nome del "Back to the roots": riscoprire i sapori degli avi, perduti o diluiti nel processo di integrazione, senza per questo rinunciare a quell'inevitabile meticciato che in cucina trova terreno più che fertile. Il cibo non è mai intatto, puro, singolare, ma sempre il prodotto di un incontro. Ma cosa c'è più universale e condivisibile della nostalgia per piatti che non abbiamo forse mai assaggiato ma che fanno parte del nostro Dna? Anzi, di quel doppio Dna composto certamente di molecole incatenate l'una all'altra, ma anche e forse prima ancora di memoria, sensi, emozioni? Il cibo atavico, quello accantonato e magari pure rimosso in nome dell'uniformità, di una insipida comunanza globale fondata sulla sicurezza di trovare ovunque nel mondo gli stessi sapori, sta tornando. E sta tornando Nella globalizzazione non è facile per i giovani tornare ai propri piatti autentici soprattutto nei giovani, in quelle seconde e terze generazioni che, ovunque nel mondo, provano a riscoprire proprio quel tenace Dna della memoria storica che disegna l'identità di ognuno di noi, ovunque sia e da qualunque angolo del mondo provenga.
Perché il cibo è davvero la miglior cartina di tornasole, il marchio inconfondibile dell'appartenenza. O meglio, lo era, poi si è perso e ora sta tornando. Perché, certo, gusto e olfatto sono i sensi più resistenti al tempo che passa: il profumo che sale da una pentola fumante, la consistenza che aderisce a un palato e scende pian piano giù, sono capaci di evocare ricordi, nostalgie e speranze più di ogni altra esperienza. Per questo, connettersi alle proprie radici attraverso il cibo è un impulso tanto naturale quanto complesso, fatto di tanti stimoli diversi. E così non sorprende che chi si interroga sulle proprie radici, su cosa bevevano e mangiavano i suoi avi, magari in un Paese che non ha mai conosciuto, trovi nella cucina un luogo per tenere viva la memoria e le memorie. Ogni cultura ha peraltro un approccio "personale" e distinto al cibo, ogni cultura ha il suo modo di connetterlo alla memoria, di usarlo per marcare l'identità e la fede. Il cibo è da millenni, ad esempio, nodo cruciale della tradizione ebraica, meccanismo primo per conservare se stessi, tanto nella quotidianità quanto nelle ricorrenze del calendario. Il cibo è stato il cuore della nostalgia per gli emigrati del nostro Paese, sparsi ai quattro angoli del mondo ma anche soltanto "saliti" nelle grandi città del nord spopolando i borghi e le campagne del profondo Sud. E a poco a poco è stato importato, si è diffuso là dove nessuno prima lo conosceva.
Il più grande mercato all'aperto d'Europa, Porta Palazzo, ha fatto conoscere alla Torino degli anni Cinquanta sapori marziani quali soppressate e cime di rapa, e mezzo secolo dopo sono arrivati curry, bok choy e manioca a fare lo stesso effetto prima di integrarsi nel paesaggio urbano e in tavola. Il viaggio del cibo, in fondo, è sempre lo stesso: avanti e indietro nella storia e nella memoria. Il fatto che i giovani afroamericani ma anche cinesi o slavi sentano la necessità e il desiderio di (ri)conoscere le proprie radici in cucina e nei piatti, e prima ancora di raccogliere in sé tutte le storie che essi raccontano, è un'avventura tanto affascinante quanto necessaria, per capire se stessi. Anche se questa riappropriazione di una preziosa eredità materiale e sentimentale non procede sempre liscia: basti pensare alla gimcana identitaria che le giovani generazioni orientali debbono fare ovunque del mondo per tornare ai propri piatti autentici, schivando una globalizzazione che ha non di rado snaturato la cucina tradizionale, partendo dal pollo con le mandorle per arrivare al sushi - icone ormai onnipresenti. Il cibo, insomma, è quell'insieme unico di tradizione ed estro, di memoria e sentimento, che ne fa il territorio privilegiato per capire chi siamo, chi eravamo, che cosa vogliamo diventare.
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