Il pane perduto
Edith Bruck
La nave di Teseo
euro 16
“L’italiano è la mia famiglia, la mia casa, è la lingua della libertà assoluta. La lingua di Dante è stata la mia salvezza”.
Con queste parole Edith Bruck scrittrice, poetessa e sceneggiatrice ungherese, una delle ultime testimoni della Shoah, accoglie il nuovo riconoscimento conferitole in questi giorni dalla Società Dante Alighieri di cui ora è vicepresidente. Dalla pubblicazione del suo primo libro nel 1959, “Chi ti ama così”, un’autobiografia che ha per tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager, Edith Bruck non ha mai smesso di scrivere racconti, poesie e romanzi per i quali ha ricevuto prestigiosi premi letterari ed è stata tradotta in svariate lingue. Il suo ultimo libro recentemente edito da La nave di Teseo, “Il pane perduto” con il quale è finalista nella cinquina del premio Strega e vincitrice del premio Strega Giovani 2021, è un racconto intenso e commovente che prende avvio dall’infanzia della protagonista e racconta di una piccola ebrea con le trecce bionde che vive con la famiglia in uno sperduto villaggio ungherese. Ultima di sei fratelli Dikte/Edith è molto brava a scuola ma percepisce l’ostilità dei compagni in quanto ebrea, oltre ad una progressiva emarginazione che le persecuzioni naziste e i soprusi dei fascisti ungheresi rendono ancor più pesante.
“Mamma, cosa succede, perché non ci vogliono? Siamo anche noi ungheresi, no?” Si chiede disperata la piccola Ditke poco prima che la famiglia sia costretta a lasciare la loro modesta abitazione, ristrutturata con tanti sacrifici, per essere confinata in un ghetto. Grande è il dolore della madre nell’abbandonare il pane lasciato a lievitare che non è riuscita a cuocere e che sembra il presagio funesto di quanto ha in serbo il destino per il popolo ebraico. E’ a questo punto che la narrazione - con i ricordi che si mescolano senza un vero ordine cronologico - passa alla prima persona come se la protagonista, improvvisamente adulta, prendesse coscienza della propria storia. “Con la velocità della luce che mancava e il sole tramontato ci hanno cacciati dalle case con urli, spinte e bestemmie…non c’era tempo né per piangere, né per parlare, solo per stare attenti ai passi e ai bimbi che potevano sfuggire…sembrava l’esodo dall’Egitto senza un Mosè, senza che apparisse l’Eterno, e invece del Mar Rosso si aprirono con un rumore lacerante i vagoni per bestiame, e la mandria umana veniva spinta dentro con violenza”.
Per Ditke e la sua famiglia si spalancano le porte del campo di sterminio di Auschwitz dove viene separata dalla madre destinata alle camere a gas, una figura quella della mamma tanto severa quanto amata, una presenza assenza che ritornerà in ogni momento difficile del lungo cammino per tornare alla vita. Auschwitz, Birkenau, Dachau, Bergen Belsen: il racconto degli orrori del lager con la fame, le privazioni, le violenze delle kapò non si discosta dalle narrazioni di altri sopravvissuti ai campi di sterminio ma resta comunque sconvolgente per il lettore che ogni volta si affaccia su un inferno di indicibile violenza. Ditke e la sorella Judith lottano per restare vive, senza perdere la propria dignità e soprattutto “senza nuocere alle altre, nella lotta quotidiana per arrivare all’indomani”. E una volta giunte nel campo maschile di Bergen Belsen durante la terribile marcia della morte, dinanzi a mucchi di uomini scheletriti, Ditke raccoglie un’eredità pesante: quella di raccontare anche per chi non ce l’ha fatta. “Racconta, non ci crederanno, racconta, se sopravvivi, anche per noi”. Il ritorno a casa non è facile per Edith e Judith. “La gente era respingente ovunque, frettolosa, sospettosa degli ebrei superstiti che venivano guardati come fantasmi”. Anche il ricongiungimento con i familiari superstiti è privo di calore, permeato dall’ombra del sospetto: le sorelle Mirjam e Sara le accolgono con circospezione, rinchiuse in un bozzolo di diffidenza ed egoismo. Nella seconda parte del libro l’autrice ci dà contezza con uno stile scarno, essenziale ma di forte impatto simbolico delle lunghe peregrinazioni che alla fine l’hanno portata a vivere in Italia. Edith raggiunge dapprima la sorella Judith in Israele ma la Terra Promessa cui tanto aveva anelato la madre è per lei una delusione. Si rifiuta di fare il servizio militare e dopo un matrimonio sfortunato con un marinaio rozzo e violento Edith parte per la Grecia al seguito di una compagnia di ballo. Poi raggiunge Istanbul, Zurigo, una città che le è più familiare ma “che non emana alcun odore o calore”, infine approda a Napoli dove comincia la sua nuova vita. Adotta l’italiano per scrivere, quel sogno che l’ha sempre accompagnata e che ora può diventare realtà.
A Roma - “la città eterna, dopo la sorridente Napoli, che sembrava fosse sempre esistita dai tempi dei tempi come Gerusalemme” - Edith incontra il poeta e regista Nelo Risi che sarà suo marito e con il quale condividerà la vita per oltre sessant’anni. Edith Bruck, ormai anziana, avertendo i primi segnali di amnesia ha voluto regalarci un nuovo capolavoro dove spicca la solitudine e la desolazione dei sopravvissuti, il dolore di non essere ascoltati, la consapevolezza che la Shoah ti trasforma lasciandoti una lancinante nostalgia per quella vita irrimediabilmente perduta. Con la “Lettera a Dio” l’autrice chiude il suo scritto interrogandosi su delicate questione etiche e sollevando domande che scavano nella coscienza di ogni uomo. Perché Dio non ha visto il travaglio del popolo ebraico? Si chiedeva Edith affamata e infreddolita nel campo di sterminio, senza capire il significato di tante sofferenze. Dopo ottant’anni dalla prima lettera a Dio, scritta con il pensiero all’età di nove anni, Edith chiede all’Eterno di conservarle la memoria che è il suo pane quotidiano affinchè possa ancora illuminare qualche coscienza giovane nelle scuole e nelle aule universitarie dove in veste di testimone ha raccontato la sua esperienza da una vita. “….Andrò avanti finchè avrò respiro. Questa è la mia missione e anche un dovere morale.
Giorgia Greco