Giovani, brillanti e in fuga: 'Lasciamo l'Iran' Commento di Gabriella Colarusso
Testata: La Repubblica Data: 26 giugno 2021 Pagina: 17 Autore: Gabriella Colarusso Titolo: «Giovani, brillanti e in fuga: 'Meglio lasciare Teheran'»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 26/06/2021, a pag.17, con il titolo "Giovani, brillanti e in fuga: 'Meglio lasciare Teheran' ", la cronaca di Gabriella Colarusso.
Gabriella Colarusso
Ebrahim Raisi
«La paura è il primo livello. Poi vengono l’indignazione, la rabbia, la protesta. Ora siamo al livello 5: se qualcuno mi parla di politica dico: ok, next?». Il giorno prima di compiere 30 anni Aniseh si è fatta un “regalo”, ha completato la procedura per chiedere il visto in Australia per “motivi di studio”. È laureata in economia, ha già fatto anche un master, lavora per una impresa online che verifica i marchi di fabbrica, ma ricominciare a studiare è la strada con più chance di riuscita per lasciare l’Iran. La incontriamo in un caffè di Teheran due giorni dopo il voto che ha portato alla presidenza Ebrahim Raisi, un religioso ultraconservatore di Mashhad che ha vinto in un’elezione «engineered», dice lei, “ingegnerizzata” dalla Guida suprema e dal consiglio dei Guardiani «per fare in modo che non avesse sfidanti». Avevamo fatto diversi tentativi di vederci, ogni volta era finita con lo stesso messaggio: «Scusa, ma meglio di no»: Aniseh non è un’attivista né fa parte dell’opposizione ma come tutti a Teheran sa che incontrare giornalisti può essere un rischio. I reporter sono controllati, a quelli stranieri è consentito lavorare solo con agenzie che hanno il compito di limitare i contatti a quelli autorizzati dal governo. Quando la sera concede un margine di libertà, le conversazioni sono più schiette. «Mia sorella ha 4 anni più di me, lavora per una grande casa farmaceutica, ma anche lei ha chiesto un visto estero: non si fida, se anche faranno l’accordo con gli americani ha paura che finisca come con Trump. E con questo nuovo governo all’estero sarà più difficile negoziare», racconta. Due anni fa aveva aperto un caffè con gli amici, c’erano un cortile interno per i dj set e librerie in condivisone. La pandemia li ha costretti a chiudere. La crisi economica scatenata dal ritorno delle sanzioni e da malgoverno e corruzione ha piegato la classe creativa e tecnologica di Teheran. Le sanzioni rendono complicato fare ogni cosa, anche scaricare un software. La censura incombe su tutto. I vpn sono la porta di accesso al mondo, schermano la connessione e consentono di visitare siti e social filtrati, come Twitter, fino a quando il governo non decide di staccare la spina. È successo a novembre del 2019 quando sono scoppiate le proteste di piazza contro il carovita e il carocarburante: per sei giorni l’Iran è rimasto isolato dalla Rete globale, la prima volta su una scala così ampia, i morti sono stati più di 300, secondo Amnesty International, e migliaia le persone arrestate. In quel momento Raisi era il capo della magistratura. «Penso che la situazione con lui peggiorerà. Sono conservatori e sanno di avere pochi voti. Non era ancora nemmeno stato eletto che già ci ammoniva a comportarci bene», dice Aniseh. Bene vuol dire da hezbollahi, da veri “rivoluzionari”, nell’idea del nuovo presidente che si dice sia tra i candidati più quotati per succedere alla Guida suprema, Ali Khamenei. Recuperare i principi originari su cui si fonda la Repubblica islamica, la giustizia sociale e la rettitudine morale, è stato uno dei leitmotiv della sua campagna elettorale. L’Iran però oggi è un Paese diverso, «tra i più secolarizzati del Medio Oriente, con un alto tasso di alfabetizzazione e una società civile molto vivace», riflette un funzionario europeo. «C’è una distanza sempre più marcata tra il sistema e il popolo». A casa di Seyyed ci si arriva con 20 minuti di macchina a nord di Teheran. È un appartamento condiviso ma accogliente. La cena è persiana, la musica elettronica: Radiohead, poi Muse. «Io lavoro in teatro, la pandemia ha bloccato tutto. Siamo indietro di tre mesi con l’affitto. Molti amici sono partiti», dice mentre trattiene il pianto. «Ma io faccio teatro classico, fuori dall’Iran non avrei lavoro. Si, è vero, la repressione pesa, mi piacerebbe uscire a farmi una birretta, ma il problema reale è il lavoro ». L’emigrazione è un tema politicamente sensibile in Iran. Il governo non dà numeri ufficiali, i dati che arrivano dall’estero sono raccolti grazie alle statistiche di immigrazione dei Paesi ospitanti. In uno studio pubblicato in primavera, i ricercatori del progetto “Iran 2040” dell’università di Stanford hanno stimato che nel 2020 nelle università estere si sono iscritti circa 130mila studenti di origine iraniana, la percentuale più alta degli ultimi anni. La fuga di cervelli costa all’Iran circa 50 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime della Banca mondiale. Bahram Salavati, responsabile del centro per l’immigrazione dell’università Sharif di Tehran, contesta i numeri di Stanford. “Hanno commesso dei grossi errori nell’analisi, per esempio non considerando la differenza scientifica tra mobilità e immigrazione”, spiega. In base ai «nostri dati nel 2003 avevamo 17mila studenti all’estero, nel 2012 erano 50mila, nel 2019 il numero è rimasto quasi stabile, 56mila studenti all’estero nel 2020». Eppure anche Salavati ammette che «oltre il 40% degli studenti desidera andarsene dall’Iran», stessa percentuale tra medici, docenti universitari, startupper. Riuscirci è un’altra faccenda perché i visti sono rari e i costi per ottenerli molto alti. A Teheran ci sono diversi uffici di traduzione che servono per preparare i documenti da presentare alle ambasciate: gli appuntamenti vanno da due mesi in su, tante sono le richieste.
Per inviare la propria opinione a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante