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Informazione Corretta Rassegna Stampa
21.06.2021 La farsa elettorale iraniana solleva ancora una volta il dibattito sul ‘cambio di regime’
Analisi di Ben Cohen

Testata: Informazione Corretta
Data: 21 giugno 2021
Pagina: 1
Autore: Ben Cohen
Titolo: «La farsa elettorale iraniana solleva ancora una volta il dibattito sul ‘cambio di regime’»
La farsa elettorale iraniana solleva ancora una volta il dibattito sul ‘cambio di regime’
Analisi di Ben Cohen

(traduzione di Yehudit Weisz)

A destra: Ebrahim Raisi secondo Dry Bones. Il nuovo presidente iraniano è famoso come "il macellaio"... riuscite a indovinare perché?


Venerdì scorso il popolo iraniano ha di nuovo subìto la farsa che l’affligge ogni quattro anni, quando il regime islamista l’invita ad una partecipazione di massa alle sue “elezioni” presidenziali. Già dieci ore dopo l'apertura delle urne, un team di CBS News a Teheran aveva riferito che meno del 25% degli aventi diritto si era preso la briga di presentarsi ai seggi elettorali, fornendo una conferma anticipata di ciò che si presagiva ampiamente prima del voto: che gli iraniani in generale avrebbero eluso il ridicolo tentativo dei loro governanti di persuadere il mondo esterno che la loro teocrazia corrotta e macchiata di sangue sia una forma rispettabile di governo. I nomi che alla fine figureranno sulla scheda elettorale di un'“elezione” presidenziale iraniana sono selezionati con cura dai 12 giuristi del potente Consiglio dei Guardiani, sei dei quali vengono nominati personalmente dal “Leader Supremo” dell'Iran, l'Ayatollah Ali Khamenei.

All'inizio di questo ciclo elettorale, i candidati alla presidenza erano 600, tra cui 40 donne. Dopo che il Consiglio dei Guardiani ha ristretto la lista, erano rimasti sette uomini, di cui solo quattro hanno partecipato effettivamente alle elezioni del 18 giugno. Sebbene le elezioni presidenziali iraniane siano sempre state truccate in anticipo attraverso questo sistema, in un passato non così lontano, alcune organizzazioni dei media occidentali le hanno descritte come autentiche lotte politiche tra “riformatori” e “intransigenti.” Durante gli anni '90, il defunto Ali Akbar Hashemi Rafsanjani - un astuto multimilionari che da molti era ritenuto aver approvato l'attentato al centro ebraico AMIA di Buenos Aires nel 1994 - godeva comunque della reputazione di un riformatore che voleva migliorare le relazioni con l'Occidente. Questo è stato ancora di più il caso del suo successore, Mohammad Khatami, una primadonna il cui amore per la scena internazionale ha suscitato le ire dei conservatori del regime e che è stato debitamente sostituito nel 2005 con il famoso negazionista della Shoah, Mahmoud Ahmadinejad. Per un periodo significativo durante il primo decennio del 2000, sia il successore di Ahmadinejad, Hassan Rouhani, sia il suo Ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, sono stati descritti dall'amministrazione del Presidente Barack Obama come eroici, anche se islamicamente autentici, riformatori il cui obiettivo principale era proteggere la civiltà mondiale accettando un accordo storico sul programma nucleare iraniano. Tuttavia, questa volta non esiste un'iperbole così fuorviante.

In effetti, tutti i dubbi che ho avuto nello scrivere questo articolo prima che il vincitore delle elezioni venisse annunciato ufficialmente, sono stati messi a tacere quando mi sono imbattuto nel commento di un negoziante di Teheran a un giornalista dell'agenzia di stampa AFP : "Che io voti o meno, qualcuno è già stato eletto. Loro organizzano le elezioni per i media.” Tutti e quattro i candidati alla presidenza sono fedeli lealisti del sistema velayat-e faqih – la “custodia ” politica e sociale dei giuristi islamici – che ha prevalso in Iran fin dalla presa del potere islamista nel 1979. Il capofila Ebrahim Raisi è un macellaio che ha ucciso migliaia di dissidenti contrari al regime durante il suo mandato come Procuratore a Teheran negli anni '80. Abdolnasser Hemmati è un ex collaboratore di Ahmadinejad e, più recentemente, è il Governatore della Banca Centrale Iraniana, che finanzia il terrorismo. Mohsen Rezaei era il comandante del temuto Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) durante l'infernale guerra durata otto anni con il regime di Saddam Hussein in Iraq, tra il 1980 e il 1988. Amir Hossein Qazizadeh Hashemi—a 50 anni, il candidato più giovane—è il vicepresidente del parlamento iraniano e un incrollabile lealista di Khamenei. Il prossimo Presidente iraniano entrerà in carica dopo un'elezione che sarà ricordata per la sua ridicola scarsa partecipazione. Lo farà, inoltre, in mezzo a un'economia che è stata sconvolta dalla pandemia del coronavirus, oltre alle soffocanti sanzioni economiche sugli interessi del regime che erano state reintrodotte dall'ex amministrazione Trump dopo il suo ritiro dall'accordo nucleare iraniano nel maggio del 2018. La valuta ha perso circa il 500 per cento del suo valore rispetto al dollaro USA nello stesso periodo, mentre l'inflazione ha raggiunto il 50 per cento. Nonostante questa doppia emergenza sia nella salute pubblica sia nella capacità essenziale dei cittadini comuni di mettere del cibo in tavola, le priorità del Presidente entrante saranno incentrate sull'aumento dei conflitti sia in patria che all'estero.

“Sotto una presidenza intransigente, l'Iran continuerebbe ad avere relazioni tese con l'Occidente. Continuerebbe a spingere per estendere l'Islam sciita e incrementare il potere nella regione con l'aiuto del Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica (IRGC) - una delle principali forze armate, politiche ed economiche in Iran - e dei suoi surrogati locali”, ha scritto Kasra Naji, un analista della BBC con il servizio in lingua persiana, il giorno delle elezioni. “L'Iran vorrebbe avvicinarsi alla Cina nella speranza di attirare centinaia di miliardi di dollari di investimenti cinesi.” Per favore, non ignorate la pungente ironia della Repubblica Islamica dell'Iran, audace difensore della ummah musulmana e di Gerusalemme/Al Quds “occupata”, quando mendica investimenti da un regime comunista che ha incarcerato fino a 2 milioni di membri della sua minoranza musulmana, quella degli Uiguri, nei campi di concentramento. Mentre la coerenza morale non è un parametro particolarmente utile quando si tratta di giudicare le prospettive del regime iraniano, il malumore del popolo iraniano lo è certamente. Negli ultimi quattro decenni ci sono stati molti casi in cui l'insoddisfazione popolare iraniana nei confronti del regime ha lasciato il posto a una protesta aperta. Il round più recente è iniziato alla fine del 2019 ed è continuato per gran parte della pandemia nel 2020, inizialmente innescato da un contraccolpo contro gli aumenti dei prezzi del carburante. Ciò che era chiaro in quel giro di manifestazioni - come chiaro lo era nel 2010, quando Ahmadinejad provocò una rivolta studentesca di massa - era che il vero fulcro dell'inimicizia era il regime stesso. Tra gli slogan cantati c'era “No a Gaza, no al Libano”, un riassunto conciso di come molti iraniani si sentono nei confronti di un governo che fa morire di fame e brutalizza la propria popolazione mentre esalta la “resistenza” palestinese.

L'amministrazione Biden si sta facendo strada con cautela nella sua politica iraniana. Se la storia insegna, dovrà avere una chiara risposta pronta nei prossimi giorni e settimane, quando le proteste in Iran potrebbero essere facilmente riaccese. Dopotutto, gli elementi chiave sono presenti: un Presidente fanatico senza legittimità democratica, un'infrastruttura socioeconomica che è crollata e una politica estera che priva gli stessi iraniani di mezzi di sussistenza e opportunità. Ogni volta che questa serie di circostanze ha portato a proteste, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno offerto un sostegno retorico (nel caso di Obama, assicurarsi che anche quella era una sfida), ma nessuna strategia per rovesciare il regime. L'amministrazione Trump non aveva dubbi sulla natura dei governanti iraniani e li ha sanzionati di conseguenza; tuttavia, il Segretario di Stato americano Mike Pompeo ha mostrato sempre chiaramente che il suo obiettivo generale era quello di garantire un cambiamento radicale nel comportamento della Repubblica Islamica, piuttosto che spingere per un “cambiamento di regime” totale. Finora, l'amministrazione Biden non ha detto nulla che suggerisse che si sarebbe allontanata da questo percorso. Avremo un'idea più chiara, forse, una volta che cominceranno le proteste.

Ben Cohen Writer - JNS.org
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate

takinut3@gmail.com

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