Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 07/06/2021, con il titolo "Farah, Samira e le altre. La libertà conquistata a fatica delle musulmane d’Italia", la cronaca di Karima Moual.
Karima Moual
«Sono figlia di una doppia cultura che ancora mi lega a regole ingiuste e sessiste, ti ringrazio per essere la voce di chi non la ha più. Continueremo a batterci per i nostri diritti, fino alla fine. M.N.». «Tenete i riflettori puntati su #SamanAbbas, è una di noi. S.H.». Messaggi che rivelano con chiarezza l’indignazione, la paura e la sofferenza di molte ragazze che in Saman Abbas hanno rivisto il loro disagio, le loro battaglie, le loro paure, e la gabbia di tradizione e cultura patriarcale da cui vorrebbero liberarsi.
Confini da non superare
Farah (nome di fantasia) prima di parlare si fa promettere l’anonimato. Ha 20 anni, studia all’università e per lei è già un traguardo proseguire gli studi, cercare un compromesso con i genitori per sposare un ragazzo della comunità pakistana in Italia anziché un cugino in patria. «Noi sappiamo sin da piccole che ci sono alcuni confini da non superare. Chi dovremo avere a fianco come marito è una decisione che parte dai nostri genitori. È un equilibrio delicato, un rapporto da costruire tra figlie e genitori perché non ci siano contrasti ». Il legame con la famiglia è quasi un patto di sangue. Sottomissione, lealtà e rispetto. «I genitori sanno qual è il bene dei figli più dei figli stessi, e non possono sbagliare: questa frase racchiude il loro potere e la nostra impotenza. Vale per le femmine e per i maschi, ma noi donne subiamo di più perché abbiamo poco margine e spazio di azione al di fuori della casa». «Fin da bambini si cerca di combinare le possibili coppie. C’entrano la famiglia, i rapporti, ed anche l’aspetto economico — racconta Noorshen — Noi che siamo all’estero, per chi sta in Pakistan, acquisiamo anche più importanza, perché il promesso sposo può arrivare in Italia grazie a noi. Un visto per l’estero non è una dote da poco».
Matrimoni d’interesse
Ma senza arrivare in Pakistan, ne sa qualcosa Samira, marocchina, che a 18 anni, durante una vacanza in Marocco si è vista sequestrare il passaporto italiano, ed è stata obbligata a sposare un cugino. «Ero troppo indipendente per i miei genitori e un po’ un disonore per loro e la comunità, che li additava — secondo loro — a causa della mia cattiva condotta, solo perché uscivo la sera, mi piaceva ballare e frequentare italiani », racconta. «Mio padre aveva il terrore che andassi con un italiano. Con un tranello, mi sequestrò i documenti e nel giro di una settimana, organizzarono i festeggiamenti per un matrimonio che mai avrei voluto. Era evidentemente un matrimonio d’interesse: mio padre recuperava l’onore, mio cugino sarebbe arrivato in Italia».
Un orrore che non si dimentica
Samira non aveva scelta: ha resistito, recitando la parte della moglie per liberarsi una volta tornata in Italia, dove è riuscita a divorziare grazie al fatto che, per suo cugino, il visto per l’Italia era più importante di lei. «Oggi ho due figli con un uomo italiano che ho scelto e sposato, ma l’orrore che ho passato per mano di mio padre e con il consenso di mia madre non potrò mai dimenticarlo. La libertà l’ho pagata a caro prezzo». La famiglia di Muhammad è in Italia da 40 anni, ma è come se non avesse mai lasciato il villaggio in Marocco. I figli, tre maschi e due femmine, sono nati quasi tutti qui, ma oggi sono tutti sposati con i cugini in Marocco. Matrimoni combinati. Infelici? Non lo sembrano, nonostante siano stati decisi a tavolino. Quei legami sono anche un affare economico, e un bene che rafforza ancora di più la famiglia, che ormai fa da spola tra l’Italia e il Marocco.
La politica oltre il folklore
Il tema dei matrimoni forzati è complesso. Dietro alla scomparsa di Saman c’è un mondo in movimento, seppure silenzioso, e apparentemente remissivo che si scontra — anche grazie alla sfida dell’immigrazione — con la possibile rottura di equilibri che tengono insieme da secoli una struttura patriarcale di tradizione, fede, cultura, interessi e territorio. Quello dei matrimoni combinati (o forzati) tra i membri della stessa comunità etnica, religiosa e familiare, non è solo un fatto folkloristico, ma ha dietro un disegno politico preciso: al centro c’è la forza di una comunità conservatrice con tutti i suoi riferimenti, e le donne — come sempre — sono l’oggetto della battaglia. Dietro alle unioni combinate c’è il divieto assoluto dei matrimoni tra donne musulmane e uomini non musulmani e la fobia (per un padre, una famiglia e un’intera comunità) che una figlia possa infrangere questo divieto. L’immigrazione, con l’integrazione in Occidente delle seconde generazioni di musulmani, sta sfidando questo pilastro della comunità islamica, e in alcuni casi c’è un conflitto tra generazioni.
Camminare in una cristalliera
Sanaa, bengalese, la sua emancipazione l’ha conquistata un passo alla volta. «Se penso alla mia vita, mi vedo in una vetrina piena di cristalli: attraversarla può significare ansia, ferite o rotture, mentre uscirne indenne è un miracolo. Così è stato quando ho deciso di non portare più il velo. E ho convinto i miei genitori a non portarmi con loro in Gran Bretagna, dove rispetto all’Italia c’è una comunità più solida, che mi avrebbe ulteriormente relegata in casa. Studio, ho un fidanzato italiano da tre anni, e so che mio padre non accetterà mai questa scelta. Forse se lui si convertirà all’Islam, ma forse nemmeno questo basterà». Nonostante le battaglie per i diritti delle donne, la maggior parte delle famiglie musulmane ha una struttura gerarchica, in cui l’uomo è il capo indiscusso. Non a caso, secondo le leggi vigenti nei Paesi musulmani, i figli appartengono al padre e seguono la sua religione. La donna può avere una religione diversa dal marito, ma non trasmetterla ai figli. L’Islam cresce anche grazie alla demografia ed è comprensibile, facendo un ragionamento politico, come la battaglia per cancellare la legge che vieta alle donne musulmane di sposare non musulmani sia stata vinta solo in un Paese, la Tunisia, nel 2019. Raccontando le storie di Saman Abbas, Hina Saleem, Sanaa Dafani, Sanaa Cheema, non si può tralasciare la radice arcaica sì, ma profondamente politica di quanto sta avvenendo.
L’allarme che arriva dalle scuole
Mentre scrivo mi arriva la mail di una maestra: «Una ragazzina di soli 13 anni è stata obbligata a non venire più a scuola, non prenderà nemmeno la terza media perché deve tornare in Bangladesh per sposarsi. Non sa niente di lui, tranne che ha 10 anni più di lei... Lei non sta bene, avrebbe voluto continuare gli studi, ma ha accettato per paura ciò che vogliono i suoi genitori. È una delle tante che ho visto sparire da un giorno all’altro».
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