Riprendiamo dalla STAMPA - TorinoSette di oggi, 04/06/2021, a pag.4, con il titolo 'Angelo Pezzana: il mio rimpianto? Una famiglia e tanti figli' l'intervista di Maria Teresa Martinengo.
Anche sul Venerdì di Repubblica c'è un servizio su Angelo Pezzana, lo segnaliamo ai nostri lettori
Maria Teresa Martinengo
Angelo Pezzana
L’anno del suo ottantesimo compleanno, Angelo Pezzana lo sta vivendo intensamente. Coincide quasi per intero con quello del cinquantesimo della nascita del Fuori!, il movimento di liberazione omosessuale fondato con Marco Silombria, Enzo Francone, Alfredo Cohen nel 1971. A settembre, una grande mostra al Polo del `900 ne ripercorrerà la storia attraverso manifesti, fotografie, documenti. Uscirà un libro con la riproduzione delle irriverenti copertine della rivista Fuori!, la voce del movimento, pubblicata tra il `71 e 1'82. Da mesi l'anniversario e il suo leader sono al centro di una intensa attenzione mediatica, mentre procede la digitalizzazione dell'archivio della Fondazione Sandro Penna/Fuori! Da qualche giorno, poi, è in libreria "Fuori i nomi!" di Simone Alliva, Fandango, storia italiana Lgbt in 17 interviste. Quella che apre il volume, va da sé, è a Pezzana, "Il padre".
Pezzana, si riconosce nell’immagine del padre? «In quel senso non direi. Invece, come ho spiegato anche nel libro, io avrei desiderato davvero diventare padre, ma ci era proibito fare figli. Nei primi dieci anni del movimento, poi, la famiglia era uno degli elementi di repressione più forti perché ignorava del tutto la sessualità. Io ho cominciato a desiderare una famiglia alla fine degli anni 80, troppo tardi. Un giorno ne ho parlato con un amico avvocato per vedere se avrei potuto denunciare lo Stato italiano che mi ha impedito di averla. Mi ha suggerito di lasciare perdere».
Che tipo di famiglia avrebbe voluto? «Con tanti figli, lo dicevo già quando ero piccolo. Noi eravamo quattro, io pensavo: ne avrò di più. Ma non avevo nessun senso della paternità. Ho cominciato a ragionare a 17 anni quando sono tornato dopo tre annidi collegio svizzero. Mio padre, che faceva l'agricoltore, voleva che imparassi le lingue per aiutarlo ad espandere la sua azienda. Era partito garzone, è arrivato a vendere riso ai giapponesi».
Oggi quella famiglia se la costruirebbe? «Sì, andrei in uno dei Paesi civili dove la `maternità per altri' è regolamentata per legge, dove non c'è ombra di sfruttamento delle donne. Mi piacerebbe avere continuità attraverso una persona che io ho contribuito a creare, darle affetto. E mi piacerebbe trasmettere le cose che amo, i miei libri, i miei quadri, a uno della famiglia. Ne sento la mancanza. Mi sento vicino alle famiglie arcobaleno. Purtroppo continuano ad avere grandi difficoltà dal momento che la stepchild adoption non è stata ammessa. La colpa è stata dei Cinque stelle, nessuno lo ricorda più».
Pochi giorni fa a Palermo un giovane torinese ha subito una violenta aggressione per un bacio dato al suo compagno passeggiando. Cinquant'anni non sono bastati? «Conosco bene questo ragazzo, collabora con noi. Ecco la necessità del ddl Zan: nella società c'è stato un avanzamento, ma quando non c'è sanzione, l'odio porta al crimine. Nello stesso giorno in Lombardia hanno sparato contro la casa di una coppia di pensionati. L'omofobia porta al crimine, non è un'opinione».
Perché questo tipo di violenza oggi è frequente? «Cinquant'anni fa, sulla rivista Fuori!, alcuni scrivevano sotto pseudonimo. Intellettuali, insegnanti. Lo facevano per evitare la discriminazione sul lavoro, in famiglia. Ma solo prima delle unioni civili era ancora raro vedere due ragazzi mano nella mano o scambiarsi un bacio per strada. L'approvazione delle unioni civili ha portato visibilità e comportamenti normalissimi, quotidiani, ma non ha liberato dalla violenza, anzi l'ha aiutata».
In che modo? «L'invisibilità in un certo senso garantiva dall'aggressione. Al Valentino, dove negli anni 70 si andava a battere, cioè ad incontrare altri omosessuali, ogni tanto arrivava una macchina con quelli che oggi chiameremmo bulli e che allora chiamavamo fascisti. Insultavano, facevano a pugni. Noi reagivamo arrivando in tanti per farli scappare. Si sapeva dove era pericoloso. Adesso può capitare ovunque».
La mostra racconterà da dove è partito il movimento... «Nel 1971 La Stampa aveva pubblicato la recensione di un libro pubblicato da Feltrinelli, "L'infelice che ama la propria immagine". L'autore, un neurologo, sosteneva che gli omosessuali erano dei poveri infelici che con la psicanalisi potevano essere curati. Con un gruppo di intellettuali e amici scrivemmo una lettera al giornale per chiedere di intervenire, il segretario di redazione ci rispose che di quel tema si era già parlato anche troppo. La stessa sera riunii quelle persone a casa mia. Così è nato il Fuori! La lotta doveva essere per la visibilità. La parola omofobia l'abbiamo introdotta noi».
Nel 1972, il Fuori! è al congresso degli psichiatri a Sanremo... «Andammo per affermare lo stesso principio: che l'omosessualità è un orientamento sessuale, non una malattia da curare. E che di lesbiche e omosessuali, volevamo parlare noi. La Stampa mandò l'inviato Luciano Curino, persona colta, un mio cliente della libreria Hellas. Fu lui a scrivere perla prima volta la parola `omosessuale" su un giornale. Fu una rottura linguistica».
La libreria Hellas aggregava intellettuali, preparava un terreno? «Sono stato il primo a portare a Torino l'editoria internazionale, le riviste straniere. Allora c'era soltanto la Librairie Française. Ho portato la cultura underground, Allen Ginsberg, James Baldwin. Il mio nume era Fernanda Pivano. Pannella l'ho conosciuto perché era venuto a trovarmi alla Hellas. Mi invitò al congresso che il Partito Radicale tenne a Torino nel '72. Al congresso ho capito che il cambiamento non poteva riguardare solo gli omosessuali, bisognava cambiare la società in maniera non violenta, assicurando i diritti civili a partire da aborto e divorzio».
Nel 1982 l'esperienza del Fuori! si esaurisce, nasce la Fondazione Sandro Penna. Nel 1988 con Guido Accornero lei dà vita al Salone del Libro. Un'altra rivoluzione. «Il Salone è stato un'apertura a livello internazionale che ha cambiato il mercato librario. All'inizio i colleghi librai mi avevano criticato. Dicevano: i libri già si vendono poco e tu adesso li vai a far vendere al Salone. Allora c'erano i cataloghi: i visitatori ne portavano a casa una borsa piena, poi ordinavano in libreria. Il Salone ha modernizzato il sistema».
Ha reso il libro più "desiderato"? «Io avevo sostenuto con gli editori l'ingresso a pagamento. La risposta era stata scettica: non vengono in libreria vuoi che vadano a vedere i libri pagando? Risposi che se una cosa è gratis non vale niente. Da allora è sempre andata bene, le istituzioni si sono coinvolte con la Fondazione, hanno messo capitali, tutte le categorie ne hanno sempre avuto un vantaggio enorme, dagli albergatori ai tassisti».
E Torino è diventata la capitale del libro... «A Torino, con la grande Utet, Einaudi, gli editori cattolici, i libri si sono sempre fatti, ma non se ne era orgogliosi. Il Salone ha cambiato le cose. Ed è stata importante anche la nascita del Circolo dei Lettori: gli scrittori sono entrati a far parte delle cronache diffuse, non più presenti solo nelle riviste culturali».
Una vita per affermare idee controcorrente, la sua. Il coraggio è una sua virtù? «Non sono coraggioso, sono uno che ha anche paura. Quando sono andato a Mosca per chiedere la liberazione del regista Parajanov e mi hanno arrestato ho avuto molta paura che mi mandassero in Siberia. Per fortuna Pannella telefonava dalla Camera tutti i momenti. Credo piuttosto di aver ereditato la creatività da mio padre. Era il garzone del mulino, ma aveva capito in fretta che se al mulino ci fosse andato con la sua farina sarebbe diventato mercante».
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante