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La Stampa Rassegna Stampa
01.11.2002 Come la pensa un grande scrittore
Lo scrittore A.B. Yehoshua analizza la figura di Rabin nel settimo anniversario della sua morte

Testata: La Stampa
Data: 01 novembre 2002
Pagina: 12
Autore: Avraham B. Yehoshua
Titolo: «Rabin: i meriti e i nemici ridimensionati dalla Storia»
Nell'anniversario della morte di Rabin riportiamo una riflessione dello scrittore A.B. Yehoshua pubblicata su La Stampa venerdì 1° novembre 2002:
"Sono trascorsi sette anni dal giorno in cui venne assassinato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin il 4 novembre 1995 e gli israeliani ne segnalano la ricorrenza con cerimonie ufficiali e convegni speciali nelle scuole, nell'esercito e in altre istituzioni governative. Tutti i mezzi di comunicazione dedicano a Rabin e al suo operato programmi e dibattiti fra intellettuali. Tra una parte della popolazione, e in particolar modo tra i sostenitori della sinistra, è diffusa la sensazione, giustificata o meno, che l'uccisione del primo ministro in una fase decisiva del processo di pace abbia rappresentato una svolta radicale sia per la politica israeliana sia per la rappacificazione e la pace dell'intera regione. Ma il trauma dell'assassinio di Rabin è dovuto anche al fatto che nel corso di centoventi anni di sionismo, a partire dagli Anni Ottanta del diciannovesimo secolo, sono stati pochissimi i casi di omicidi di ebrei perpetrati da altri ebrei per motivi ideologici o politici. Fino alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, malgrado i dissidi tra destra e sinistra, tra osservanti e laici, e nonostante il fatto che gli ebrei giunti nella terra d'Israele provenissero da nazioni estremamente diverse tra loro sia da un punto di vista culturale che politico, furono pochi i casi di assassini a sfondo politico o ideologico. Mentre in nazioni come la Spagna o la Grecia infuriavano guerre civili in cui venivano trucidate centinaia di migliaia di persone, nella terra d'Israele prima della creazione dello Stato ebraico soltanto una ventina di ebrei morirono per mano dei loro fratelli a causa di motivi ideologici, e questo in una società ancora priva di un governo autonomo dotato di potere. Sebbene la maggior parte degli ebrei fosse giunta nella terra di Israele da nazioni in cui non vigeva un regime democratico, le divergenze sostanziali sulla forma e sul sistema di governo del futuro Stato ebraico e sui rapporti da mantenere con l'amministrazione coloniale britannica e con il nemico arabo furono raramente causa di violenza. Dopo la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, allorché vennero istituiti organismi democratici e stabilito un governo centrale - a cui vennero affidati gli strumenti per il mantenimento e il controllo dell'ordine quali polizia ed esercito - il numero degli ebrei uccisi da loro connazionali per motivi politici si ridusse ulteriormente e fino a oggi, cinquantacinque anni dopo la fondazione dello Stato, si sono verificati solo tre casi. Questo è un risultato di tutto rispetto per la democrazia israeliana, che ha saputo affrontare le divergenze sorte al suo interno con il dialogo e il confronto civile e senza precipitare nella violenza, diversamente da quanto è accaduto invece in molte altre nazioni dove la popolazione è peraltro molto più omogenea di quella israeliana. I motivi di questa notevole capacità di freno imposta dagli ebrei a se stessi sono principalmente due. Il primo è rappresentato dall'aspra ostilità degli arabi verso lo Stato di Israele. La presenza di un nemico comune che minaccia l'esistenza di tutti noi ha originato un senso di fratellanza istintiva che è molto difficile da infrangere. Il secondo è forse rappresentato dall'Olocausto. Dopo il terribile sterminio di un terzo del popolo ebreo e le indicibili sofferenze patite, era molto difficile per un ebreo impugnare un'arma contro un proprio fratello e versare altro sangue. Per questo l'assassinio di Yitzhak Rabin ha rappresentato un evento tanto traumatico per il popolo israeliano: proprio perché si è verificato nel contesto di un sostanziale «patto di non violenza» tra gli ebrei. Ritengo che non sia un caso che l'assassinio del primo ministro sia stato compiuto da un ebreo religioso. Infatti solo un osservante avrebbe potuto trovare dentro di sé la forza per ispirarsi a un'autorità superiore alla naturale solidarietà nazionale e osare commettere un simile crimine. L'assassinio di Rabin rappresenta un momento altamente drammatico della storia nazionale israeliana e su di esso viene compiuto un importantissimo lavoro di preservazione della memoria al fine di rafforzare la democrazia israeliana tramite l'assoluta condanna non solo dell'assassinio in sé ma anche del clima denigratorio, ostile e delegittimante che lo aveva preceduto. E' quindi possibile stabilire con una certa sicurezza che in seguito alla morte di Rabin il livello di violenza verbale della destra contro la sinistra è notevolmente calato. E questo non solo nei periodi in cui la destra è stata al governo ma anche quando Ehud Barak, a capo di un esecutivo che godeva di una base molto più ristretta di quella del governo Rabin, ha cercato di raggiungere la pace a Camp David nell'estate del 2000. Gli esponenti del Likud e i suoi leaders, soprattutto Benyamin Netanyahu e Ariel Sharon che furono fra i più accesi denigratori della politica di Rabin, non hanno osato ripetere le espressioni astiose, infamanti e delegittimanti utilizzate contro il defunto primo ministro. Anche fra le file del movimento politico religioso da cui era sortito l'assassino, o almeno in alcuni dei suoi settori, è stato compiuto un parziale esame di coscienza e di autocritica nei confronti del ruolo - ufficiale o non - sostenuto nel legittimare quel crimine. Non bisogna dimenticare che nella memoria nazionale ebraica si serba il ricordo di un trauma antico, una guerra civile combattuta prima della distruzione del secondo tempio nel 70 d.C.. Tale ricordo è talmente acuto che la storia ebraica attribuisce la perdita dell'indipendenza e la distruzione del tempio precipuamente agli scontri fratricidi avvenuti in quegli anni e non ai romani, reali fautori della distruzione. Negli ultimi anni inoltre si assiste anche a un interessante processo di differenziazione tra l'atmosfera antidemocratica e istigatrice che ha preceduto l'assassinio e l'argomento politico che ne ha rappresentato il movente, ovvero l'accordo di Oslo, il principale frutto degli sforzi di Rabin durante il suo secondo mandato in qualità di capo del governo. Oggi questo accordo appare agli occhi di molti precipitoso e irresponsabile ed è oggetto di critiche feroci non solo da parte della destra ma anche di alcune frange della sinistra, che vedono nell'atteggiamento esitante di Rabin e nella sua incapacità di includere nell'accordo lo smantellamento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania i motivi dello sgretolamento della fiducia dei palestinesi verso la leadership israeliana, che ha portato allo scoppio dell'Intifada nel settembre 2000. Oggigiorno dunque è in atto una sorta di sdoppiamento del ricordo della figura di Rabin. L'uomo in sé suscita affetto e simpatia e determinati periodi della sua biografia vengono ricordati con ammirazione e rispetto (primi fra tutti quelli del suo passato militare in qualità di ufficiale durante la guerra d´indipendenza israeliana e di vittorioso capo di Stato maggiore dell'esercito durante la guerra dei Sei Giorni). D'altro canto invece alcuni rappresentanti dell'opposizione che non osano condannare apertamente Rabin attribuiscono la paternità dell'accordo di Oslo a varie figure secondarie che avrebbero agito alle spalle del primo ministro ponendolo poi di fronte al fatto compiuto mentre egli non era del tutto convinto della bontà dell'accordo. Da un punto di vista storico tutto ciò non corrisponde a verità. Rabin aveva decisamente il controllo del proprio governo e ogni decisione veniva presa dopo che lui ne era stato informato e aveva dato il proprio consenso. Nei primi anni dopo la sua morte si è assistito anche a una sorta di idealizzazione della sua figura che rasentava il culto della personalità. Il ritratto di Rabin era ovunque e innumerevoli istituti, vie o quartieri venivano intitolati a lui. Tale tendenza era fermamente sostenuta dalla vedova di Rabin, Leah, venuta nel frattempo a mancare, intenzionata a trasformare il proprio dolore personale in un sentimento nazionale permanente e a dare al mondo la sensazione che dopo la morte del marito tutto fosse cambiato in peggio. Ho l'impressione tuttavia che anche questo culto della personalità si stia a poco a poco ridimensionando e i reali contorni della personalità di Rabin e il suo operato politico tornino a farsi più nitidi. Ritengo anche che questo sia una cosa positiva. Infatti un culto esasperato della personalità potrebbe suscitare ostilità e intaccare l'insegnamento democratico che scaturisce dall'assassinio del primo ministro. Tale insegnamento va infatti preservato e protetto con tutte le forze, soprattutto dinanzi all'effettiva possibilità di una guerra civile che potrebbe scoppiare in Israele se un governo di centro-sinistra, previa approvazione di un referendum, proseguisse nel processo di pace e autorizzasse lo smantellamento delle colonie."
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