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Berlinguer e il diavolo
Recensione di Diego Gabutti Francesco Bigazzi e Dario Fertilio, Berlinguer e il diavolo. Dall’oro di Stalin al petrolio di Gorbacev, i grandi segreti di Botteghe Oscure, Paesi Edizioni 2021, pp. 144, 14,00 euro. Primo dei moderni politici italiani elevati alla santità, Enrico Berlinguer è una figura a metà tra Che Guevara e Beppe Grillo: cinquanta per cento avanti popolo e cinquanta per cento questione morale. Una simile consacrazione non era toccata neanche a Mussolini DUX, che pure passava per Fondatore dell’Impero e che, stando a quanto si leggeva sui muri, aveva sempre ragione.
Su Mascellone si raccontavano barzellette (e persino su Gesù Cristo, volendo, ci sono barzellette a non finire, alcune parecchio osé). Ma nessuno è mai stato così miscredente da raccontare una barzelletta (specie osé) sull’uomo che strappò da Mosca col consenso e il valsente dei moscoviti (cioè delle potenze infernali, come raccontano, tra le altre cose, Francesco Bigazzi e Dario Fertilio nel loro Berlinguer e il diavolo). Fin da subito sulla strada della perfezione, egli chiamava «comunismo» non soltanto il comunismo propriamente detto (Lenin, la lotta armata, il Gulag, Stalìn) ma anche ciò che in questura, nelle sezioni democristiane e in parrocchia era noto come «buon costume». Tanto che nei primi cinquanta – in qualità d’«iscritto direttamente al comitato centrale», come diceva di lui Giancarlo Pajetta, e di segretario nazionale della gioventù comunista – aveva celebrato Maria Goretti (che allo spulzellamento aveva preferito la morte) quale modello d’onesta e virtuosa condotta morale per le giovani bolsceviche (fu, a pensarci, un primo assaggio di compromesso storico). Col tempo e le Feste dell’Unità, Berlinguer sarebbe diventato «una sorta d’incarnazione luterana»: in pratica un Marìo Goretti, restìo allo spulzellamento, anche lui.
Espressione sempre afflitta, un po’ da stitico, Berlinguer fece credere agl’italiani che il PCI fosse una specie d’esercito della salvezza à la Bulli e pupe, il musical con Marlon Brando e Frank Sinatra. Per questo predicò austerità, pace nel mondo, docce fredde, «questionmoralismo» e sacrificio ai suoi seguaci, maschi e femmine. Reazionario fatto e finito, oltre che bacchettone calzato e vestito, tuonò contro l’«americanizzazione» dell’Italietta operaio-contadina. Autostrade, supermercati, tivù a colori: vade retro.
Ma non fu per suo merito, o per qualche sua speciale astuzia, che questo grottesco e dissennato messaggio politico andò a segno. Fu opera dei compagni di strada, degl’intellettuali organici, degli utili idioti, degl’insegnanti di scuola sessantottesca, della magistratura salvifica e in generale degli «agenti d’influenza» (come si leggeva nelle spy stories che uscivano su Segretissimo ai tempi della guerra fredda). Non fu anche per loro merito, come si potrebbe pensare: fu esclusivamente merito loro. Berlinguer, timido com’era e per di più ruvido, non avrebbe mai convinto nessuno d’alcunché. Fu soltanto grazie alle ricadute variamente mediatiche (televisive, giornalistiche, persino cinematografiche) dell’«egemonia culturale» famosa che l’aristocratico sardo in giacca da camera e mignolino alzato delle indimenticabili vignette di Forattini diventò un santo, e precisamente il santo originario: l’angiolo che avrebbe aperto la strada a tutti i carismatici da talk show, suoi eredi e semblables, che negli ultimi quarant’anni, prendendo esempio dai suoi modi impacciati ma tirabaci e dalle sue comiche smargiassate su etica e politica, pronunciate dal più inverosimile dei pulpiti, non hanno «sanificato» (come si dice oggi) ma devastato e corrotto la nazione. «Sull’Italia», scrivono Bigazzi e Fertilio, si stendeva «una coltre grigia d’unanimismo che avvolgeva le istituzioni, la scuola e le università, il mondo economico, l’editoria e il mondo dello spettacolo, la magistratura, la burocrazia, le redazioni dei giornali». Quello il contesto; quelli il set, gli uffici stampa, i registi, le star.
Fu la prova generale del divismo politico in Italia. Del divismo ma anche dell’antidivismo, naturalmente, perché Berlinguer e i suoi eredi, da Antonio Di Pietro a Beppe Grillo e Giuseppe Conte, ebbero e hanno i loro Anticristi: lo «psiconano», Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Matteo Salvini. All’origine di questa sinistra e francamente orrida parata di Re di Coppe, c’è lui, Enrico Berlinguer, che come il lupus di Fedro stabat superior, longeque inferior agnus. Grazie agl’incantesimi e ai tarocchi dell’intellighenzia devota il partito comunista prima togliattiano e poi berlingueriano passò (e ancora passa, per chi se lo ricorda) come un ente morale al quale venivano (e vengono, per chi ancora ci perde il sonno) perdonati le doppiezze, l’oro di Mosca, i sinistri e rovinosi propositi sociali, le radio ricetrasmittenti clandestine, i depositi d’armi, la stampa bugiarda e bara, «i camuffamenti, i libretti d’istruzione per la guerriglia» e l’amore per i tiranni (per «Fídel Castro, Kim Il Sung, Yasser Arafat»). Questo il Berlinguer verace raccontato da Bigazzi e Fertilio. Ma quello chimerico, da gioco delle tre campanelle, non se ne lascia scalzare.
Al Berlinguer immaginario si porta rispetto, come ai predicatori medievali vestiti di stracci e ai monaci tibetani che nei fumetti di Tintin levitano nella posizione del loto due o tre metri sopra il ghiacciaio. Gandhi, diciamolo, gli faceva un baffo. Quando, negli anni delle Brigate rosse e di Tribuna politica, Berlinguer parlava di democrazia e di socialismo, anzi di «terza via» tra l’una e l’altro, «tra socialdemocrazia borghese e dittatura del proletariato», ciò che intendeva con le sue ispirate parole era «salvezza», era «grazia», «redenzione». Come in chiesa, come in moschea. Al pari di Gandhi, anche Padre Pio e gli ayatollah gli facevano un baffo. Alleato con il Diavolo bolscevico, capo d’un partito pagato e manovrato dai demoni dostoevskiani che invasavano dal 1917 il Cremlino, Berlinguer passò la vita a spacciarsi da «Sant’Antonio Sant’Antonio lu nemice de lu dimonio». Di lui, asceso com’è, per grazia egemonica ricevuta, al cielo della politica escatologica, si parla ancora oggi, quasi quarant’anni dopo la sua morte in diretta televisiva, con stupore e reverenza, come dei vecchi e saggi capi indiani nelle storie di Tex Willer. In Russia – scrivono Bigazzi e Fertilio – «l’uscita di scena del Diavolo sarebbe coincisa, come nelle favole nere, col crollo del palazzo e l’evaporazione dei suoi prodigi in una nuvola di fumo». Da noi nuvole di fumo ma evaporazione zero.
Diego Gabutti |
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