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Il ritorno delle folle antisemite
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
Un corteo contro Israele a Torino Il 13 maggio la parlamentare francese di sinistra, Danièle Obono, è uscita infuriata da un dibattito in diretta sul conflitto israelo-palestinese, ospitato dal canale in lingua francese dell'emittente israeliana, i24 News . La Obono ha avuto da ridire con un altro partecipante che stigmatizzava il partito politico in cui lei milita, La France Insoumise, non solo come antisionista, ma anche palesemente antisemita e filoislamista. Dopo aver sentito questo, la Obono ha dichiarato che non le era stata posta alcuna domanda ma di essere stata insultata. Si è tolta l'auricolare e ha abbandonato il set, rifiutando gli inviti a tornare a sedersi e a continuare la discussione. Obono ha chiarito diffusamente sia al conduttore che al direttore dello studio che le avevano chiesto di restare, che definire “antisemita” il partito che lei sostiene aveva superato ogni limite. La decisione di Obono di andarsene invece di combattere la sua causa, è stata del tutto coerente con l'approccio di un’ampia fetta della sinistra politica rispetto alla questione israelo-palestinese. Indossano con orgoglio l'etichetta di antisionismo; sostengono un unico Stato della Palestina tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano; premono per un boicottaggio globale dello Stato ebraico e di nessun altro Paese; dichiarano solidarietà ai gruppi terroristici palestinesi; raffigurano gli ebrei non come una nazione indigena del Medio Oriente ma come colonialisti esterni; denigrano Israele paragonando le sue azioni ai massacri perpetrati dai nemici storici del popolo ebraico; e tuttavia, suggeriscono a una dei suoi rappresentanti che nulla di tutto ciò potràsuggest essere etichettato come “antisemita” e di reagire come se avessero sputato loro in faccia. Gli eventi delle ultime due settimane mi fanno supporre che una risposta come quella della Obono ad un’accusa di antisemitismo sta diventando superata. L'accusa è stata storicamente considerata a sinistra come un insulto in gran parte a causa del tabù del dopoguerra sull'identificarsi pubblicamente come antisemita. Ma quell'eredità dell'era nazista sta scomparendo, insieme alla nostra memoria della Shoah. Per una nuova generazione molto più giovane della Obono e di altri leader del suo partito LFI, odiare con assoluta indifferenza gli ebrei solo perché sono ebrei, è un'espressione di solidarietà con i palestinesi tanto legittima quanto sventolare una bandiera palestinese durante una marcia, affiggere adesivi di “boicottaggio” sui prodotti israeliani nei negozi di alimentari, interrompere le conferenze nei campus universitari tenute da relatori israeliani e condividere i meme della “Settimana dell'apartheid israeliano” sui social media. Loro non si sentono insultati con il termine “antisemita”.
Semplicemente loro lo respingono come una parola di alcun valore perché è usata dai “Fucking Zionists”(un peggiorativo che si sente sempre più spesso nelle nostre strade) ai quali sono legati in un eterno conflitto. La mutazione dell'antisemitismo che l'ultimo combattimento tra Israele e Hamas ci ha fatto intravedere, non si vedeva da quasi un secolo. È una delle forme più inquietanti che l'odio per gli ebrei sta assumendo; folle semi-organizzate principalmente di giovani uomini che prendono deliberatamente di mira ebrei soli o aziende di proprietà ebraica con abusi verbali e violenza fisica. Associamo queste immagini soprattutto ai nazisti, ma ci sono casi leggermente più recenti di tale violenza antisemita. In tutto il mondo arabo alla fine degli anni millenovecentoquaranta e Cinquanta, gli ebrei furono soggetti a pogrom e ad altre atrocità, come un preludio all’esproprio e alla loro espulsione di massa da questi Paesi. La storia è piena di orribili paradossi, e questa ne è un esempio. Le folle che abbiamo visto attaccare gli ebrei nelle città su entrambi i lati dell'Oceano Atlantico sono composte in modo schiacciante da membri delle varie e più ampie comunità arabe e musulmane; nelle manifestazioni europee, ad esempio, si possono vedere bandiere turche e algerine accanto a quelle palestinesi. Lo stesso impulso che ha portato alla successiva espulsione di quasi 800.000 ebrei dal mondo arabo, sta tornando a perseguitarci proprio nei Paesi in cui abbiamo intravisto la nostra libertà. L’impulso a cui mi riferisco è la frustrazione. Durante il primo decennio di esistenza di Israele, la persecuzione degli ebrei locali nei Paesi arabi, era un'impresa che poteva essere compiuta, anzi, gustata, date le umilianti sconfitte sul campo di battaglia inflitte dalle nascenti Forze di Difesa Israeliane agli eserciti arabi. L'eredità di quella campagna interna di antisemitismo ha viaggiato con noi in continenti lontani e in contesti politici molto diversi. Ciò che rimane la stessa, è la convinzione che gli arabi siano stati privati del potere, derubati e assassinati da complotti ebraici, e che qualunque arabo sia quindi giustificato per reazione a sfogare la sua rabbia su qualunque ebreo.
Questo porta ad una semplice conclusione, diffusa anche dopo la sbalorditiva vittoria di Israele nella Guerra dei Sei Giorni del 1967: lo Stato ebraico può avere un esercito potente, gli ebrei possono controllare le banche e i media, ma entrambi alla fine assaporeranno la sconfitta. Fino ad allora, il compito di arabi e musulmani è quello di rendere la vita il più spiacevole possibile per gli ebrei, sia all’interno di Israele che fuori. Da qui gli spettacoli antisemiti in tutto il mondo che hanno accompagnato gli ultimi combattimenti in Medio Oriente: la carovana di auto attraverso i quartieri ebraici nel Nord di Londra, che minaccia di stuprare le figlie della comunità; pro-palestinesi che passano tra i commensali in un ristorante di Los Angeles prima di uscire e aver picchiato gli ebrei; centinaia di manifestanti cantano con gioia l'insulto “Maiali *** ebrei!” a una manifestazione filo-palestinese nella città tedesca di Gelsenkirchen; sette assalitori che indossano la kefiah che prendono a calci un uomo ebreo con indosso la kipah per strada nella città di New York, a Times Square, in pieno giorno. La mobilitazione di giovani arabi e musulmani che vivono in Occidente - molti dei quali sono nati dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre e sono cresciuti con le loro visioni del mondo, formate e filtrate attraverso i social media al servizio della causa palestinese, è relativamente un elemento nuovo in questo conflitto ormai secolare. È anche un qualcosa di molto imprevedibile. Quel che c’è di certo, è che l'odio più lungo del Medio Oriente sta diventando una forte sfida per la politica interna, come mai era stato a livello internazionale.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate |
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