Iran, Turchia, Qatar: ecco i sostenitori di Hamas Editoriale di Maurizio Molinari
Testata: La Repubblica Data: 23 maggio 2021 Pagina: 1 Autore: Maurizio Molinari Titolo: «Nuovi pericoli nella terra di Abramo»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 23/05/2021, a pag. 1, con il titolo "Nuovi pericoli nella terra di Abramo", l'analisi del direttore Maurizio Molinari.
Maurizio Molinari
Erdogan con il leader di Hamas Haniyeh
Gli undici giorni di violenti combattimenti fra Hamas e Israele hanno innescato cambiamenti significativi in Medio Oriente con cui ora tutti gli attori regionali, a cominciare dal presidente Usa Joe Biden, devono fare i conti. La prima e più evidente novità è la ritrovata energia del fronte anti-israeliano che era stato politicamente indebolito dagli Accordi di Abramo firmati nel 2020 dallo Stato ebraico con Emirati, Bahrein, Sudan e Marocco. Dietro gli oltre quattromila razzi lanciati dalla Striscia di Gaza controllata da Hamas ci sono infatti le forniture tecnologiche-militari di Teheran e il sostegno politico-economico di Ankara (e Doha). Iran e Turchia sono stati i Paesi più ostili agli Accordi di Abramo — temendo il patto strategico fra Israele e Stati arabi sunniti — ed ora sono riusciti grazie ad Hamas a impossessarsi della carta palestinese puntando a spingere il pendolo della regione ancora una volta verso il conflitto permanente contro lo Stato ebraico. Si tratta di una nuova versione del fronte del rifiuto anti-israeliano.
Se dal 1948 ha avuto per protagonisti successivi Stati arabi — dall’Egitto di Gamal Abdel Nasser alla Siria di Hafez Assad fino all’Iraq di Saddam Hussein — ora è guidato invece dall’Iran sciita di Ali Khamenei e dalla Turchia di Tecep Rayyip Erdogan che, pur con interessi ed obiettivi diversi, puntano entrambi sull’ostilità più radicale nei confronti dello Stato ebraico al fine di perseguire la leadership regionale. Dietro le manifestazioni di giubilo a Gaza dopo il cessate il fuoco per la “vittoria” di Hamas c’è dunque un dato eloquente: a dispetto dei pesanti colpi subiti dalla struttura militare dei miliziani fondamentalisti a Gaza, il fronte anti-israeliano sente di aver riguadagnato terreno strategico. E dunque potrebbe essere tentato da nuove, pericolose, prove di forza. Come spesso avviene in Medio Oriente la tregua è un metodo per definire nuovi equilibri di forza. È una sfida che investe in primo luogo gli Stati Uniti perché il presidente Biden sostiene gli Accordi di Abramo ereditati da Donald Trump — vedendovi un elemento di stabilità strategica nel lungo termine, come avvenuto con gli accordi di pace del 1979 con l’Egitto, del 1993 con i palestinesi di Yasser Arafat e del 1994 con la Giordania — e dunque ora il Segretario di Stato Antony Blinken in arrivo nella regione dovrà riuscire ad armonizzare questa posizione con la necessità di consolidare la fragile tregua di Gaza. Una possibile strada per procedere, spiegano fonti diplomatiche a Washington, può essere tentare di includere l’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Abu Mazen negli Accordi di Abramo sfruttando questa cornice per tentare di arrivare ad una composizione definitiva del conflitto israelopalestinese, proprio come auspicato dall’Arabia Saudita di re Salman. Il motivo per cui Riad non ha ancora aderito alle intese di Abramo è proprio l’irrisolta questione palestinese e ciò può creare le premesse per un più vasto accordo regionale con Israele. Anche la critiche saudite a Israele sul contenzioso sulle case di Sheik Jarrah a Gerusalemme Est — la miccia dell’ultima crisi — lascia intendere che Riad vuole giocare questa partita. Ma la strada per Biden è tutta in salita in quanto il nuovo fronte del rifiuto si sente rafforzato al punto da volersi insediarsi in Cisgiordania, sfruttando la scarsa popolarità di Abu Mazen dopo l’ennesimo rinvio delle elezioni palestinesi. I disordini avvenuti ieri nella moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, con il gran mufti Mohammed Hussein allontanato dai sostenitori di Hamas perché considerato espressione dell’Anp, lasciano intendere che l’obiettivo del fronte del rifiuto è adesso strappare ad Al Fatah il controllo della Cisgiordania, dove però la maggioranza della popolazione è laica, preferisce il business al fondamentalismo e dall’indomani della seconda Intifada ha scelto la convivenza di fatto con Israele. Come conferma il dato che durante gli undici giorni di combattimenti Israele-Hamas gli scontri in Cisgiordania sono stati limitati.
Ma non è tutto perché anche all’interno di Israele le conseguenze si faranno sentire: solo due settimane fa tanto il premier uscente Benjamin Netanyahu che il suo avversario Yair Lapid immaginavano di creare una coalizione di governo coinvolgendo — per la prima volta dalla nascita dello Stato — uno o più partiti araboisraeliani ma i gravi disordini inter-etnici avvenuti da allora a Lod, Akko, Giaffa, in Galilea e nel Negev hanno drammaticamente capovolto la situazione. Israele ora deve affrontare il problema senza precedenti di come impedire violenze da parte — o contro — gli araboisraeliani, ovvero circa il 20 per cento della popolazione. Come spiega Hillel Frish, politologo della Bar Ilan University, “questa oggi è la priorità assoluta” e minaccia la democrazia israeliana dal di dentro, assai più dei razzi di Hamas o di Hezbollah. Che Israele vada o meno incontro alle quinte elezioni anticipate, il nuovo premier dovrà tentare di ricostruire l’indispensabile convivenza con gli araboisraeliani. E non sarà facile. Infine, ma non per importanza, c’è l’impatto di tutto ciò sull’Europa. L’Ue finora ha sostenuto timidamente gli Accordi di Abramo ma ora si tratta di definire un comune approccio con l’America di Joe Biden al complesso di sfide che incombono in Medio Oriente: dal nucleare dell’Iran al delicato equilibrio con Ankara, dalla possibilità di riaprire il negoziato israelopalestinese fermo dal 2014 fino alla necessità di aiutare i civili di Gaza senza però foraggiare Hamas considerata — da Usa, Ue, Gran Bretagna e Canada — un’organizzazione terroristica. A rendere ancora più delicata la posizione dell’Ue ci sono le violente dimostrazioni avvenute nell’ultima settimana in Germania, Gran Bretagna, Francia ed anche a Milano dove l’ostilità verso Israele è spesso degenerata in avversione nei confronti degli ebrei. Spingendo il presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble a parlare di “insopportabile antisemitismo da parte di manifestanti pro palestinesi”.
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