Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 20/05/2021, a pag. 13, con il titolo "Hamas occupa Gaza per perseguire la distruzione d’Israele", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
La pioggia di razzi che Hamas ha iniziato a lanciare sulle città israeliane nella notte dell’11 maggio suscita una domanda semplice, che è impossibile non farsi: che cosa pretendeva? che cosa vuole? qual è l’obiettivo della sua guerra? Di certo non “la fine dell’occupazione israeliana”, perché dal 2005 — e il ritiro lo decise Ariel Sharon — non c’è più nemmeno l’ombra di un soldato israeliano a Gaza, di conseguenza non esiste occupazione di sorta, né colonizzazione o disputa territoriale di alcun tipo. Tenuto conto della guerra fratricida che combattono l’uno contro l’altro da quando Hamas, due anni dopo, ha avuto il sopravvento a forza di seminare il terrore, l’obiettivo dell’organizzazione non è nemmeno di esprimere una qualche forma di “solidarietà” all’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas, a capo, a Ovest del Giordano, del territorio “fratello”, la Cisgiordania. L’obiettivo non è nemmeno quello di rompere il cosiddetto “blocco”, accusato di asfissiare il territorio, poiché: a) Gaza non ha un’unica frontiera con il resto del mondo, ma due e, nel caso, bisognerebbe tenere d’occhio anche l’Egitto, che sì mette il chiavistello alla sua frontiera Sud; b) se proprio si vuol parlare di frontiere, la frontiera con Israele è di gran lunga la meno dotata di serrature a tenuta stagna, perché è proprio da lì che passano, ogni giorno e persino in tempo di guerra, non solo acqua, luce e gas, ma anche centinaia di camion che riforniscono di merci, quotidianamente, l’enclave; inoltre, in senso di marcia opposto, viaggiano centinaia di civili palestinesi, che vanno a farsi curare, quotidianamente anche loro, negli ospedali di Tel Aviv; c) in quanto al blocco dei prodotti che servono a fabbricare materiali militari come quelli che si utilizzano nell’aggressione di questi giorni, basterebbe che finisse l’aggressione e il blocco cesserebbe d’immediato; l’aggressione, invece, non fa che rafforzarlo. No. Hamas non ha un obiettivo chiaro, quando invece dialogo e impegno potrebbero incarnare un obiettivo in sé. O, per essere più esatti e usare il linguaggio militare prussiano di Clausewitz, “obiettivo” può essere inteso in due modi: in questo caso non esiste uno “Ziel”, un obiettivo concreto, razionale, intorno al quale un cessate il fuoco permetterebbe di confrontarsi e di trovare un accordo; esiste invece uno “Zweck”, ossia un obiettivo strategico, uno solo, che non è altro se non la riaffermazione dell’odio cieco, implacabile e dichiarato all’“entità sionista”, di cui Hamas esige l’annientamento.
Mi faccio anche una seconda domanda molto semplice, che in realtà dovremmo farci ogni volta che vediamo migliaia di manifestanti scendere in piazza a Parigi, Londra o Berlino per «difendere la Palestina». È la morte dei civili palestinesi a ripugnarli? Allora non si capisce perché non aprano bocca quando sono i palestinesi a perseguitare, torturare, mutilare con armi da fuoco, assassinare o attaccare con l’artiglieria pesante altri palestinesi, sospettati di collaborare con Israele o con chissà chi. Hanno davvero cura di appell arsi ai diritti umani in ogni luogo e in ogni circostanza? Ci si stupisce del fatto che, senza dover risalire fino al genocidio dei Tutsi in Ruanda o allo sterminio dei musulmani in Bosnia o nel conflitto del Darfur, non facciano mai sentire la loro voce in difesa degli Uiguri, “fatti fuori” dalla dittatura cinese; dei Rohingya, “invitati a sloggiare” dalla giunta birmana; o dei cristiani della Nigeria, sterminati da Boko Haram o dai gruppi di fulani islamici; e che non aprano bocca nemmeno a proposito delle colossali violazioni dei diritti umani in Afghanistan, in Somalia, nel Burundi, sulle montagne di Nuba, tutti posti che conosco abbastanza bene e dove non sono qualche centinaio ma migliaia, anzi, decine o centinaia di migliaia i civili che muoiono sotto i colpi delle armi da fuoco.
Sono dunque ripugnati dall’indifferenza complice dell’Occidente, che permette i bombardamenti a Gaza, contro una città e contro dei civili musulmani? Allora non si spiega perché non siano scesi in piazza a manifestare la loro solidarietà ai curdi del Kirkuk, aggrediti, nell’ottobre del 2017, dagli squadroni assoldati dai Guardiani della Rivoluzione Islamica dell’Iran; o non si siano mostrati solidali con i civili che, l’anno dopo, furono bombardati a tappeto da Erdogan a Ovest del Rojava; oppure, sia prima che dopo, con le città della Siria bombardate dagli aerei del dittatore arabo Bashar al Assad, che dispiegò attacchi di un’atrocità inaudita, con l’appoggio, anche bellico, di Vladimir Putin. Comunque la si giri o la si volti, non rimane che constatare che in Francia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ci sono tantissime persone che non hanno veramente a cuore né i diritti umani, né le guerre dimenticate e nemmeno i palestinesi, e che si prendono la briga di manifestare solamente quando mobilitarsi consente loro di prendere due piccioni con una fava e gridare, en passant , «morte a Israele» o «morte agli ebrei». * Io, dal canto mio, di fronte a tanto fariseismo non ho mai cambiato giacca, negli ultimi cinquant’anni. Il numero di vittime civili causate da questa guerra assurda, criminale e voluta da Hamas mi sbriciola il cuore, indiscutibilmente. E pur essendo piuttosto recenti le loro rivendicazioni a livello di nazione e anche se mi dispiace che i loro dirigenti politici non abbiano usato i cospicui aiuti e le sovvenzioni economiche internazionali degli anni scorsi per creare anche solo l’abbozzo di un’amministrazione degna di questo nome, ritengo che i palestinesi abbiano diritto a uno Stato. Ma non a uno Stato basato sulla tirannia. Non a uno Stato assassino che prende in ostaggio il proprio popolo, lo costringe a vivere in una prigione a cielo aperto e, ogni tre o quattro anni, quando il suo assetto politico vacilla, manda al sacrificio un contingente di scudi umani per poi ostentarne il martirio e lavare l’immagine della propria legittimità perduta. Infine, non a uno Stato la cui essenza è servire da rampa di lancio ai missili che puntano a distruggere Israele.
Traduzione di Monica Rita Bedana
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