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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
30.10.2002 Intervista ad Ariel Sharon
Ariel Sharon concede al Corriere della Sera una lunga ed interessante intervista

Testata: Corriere della Sera
Data: 30 ottobre 2002
Pagina: 1
Autore: Antonio Ferrari
Titolo: «"Patto antiterrore con Bush e Putin»
Riportiamo integralmente l'intervista che Ariel Sharon ha concesso al Corriere della Sera:
GERUSALEMME - Il saluto è gentile, caloroso, ma subito accompagnato da un preciso messaggio politico: «Vi do il benvenuto a Gerusalemme, capitale del popolo ebraico da 3005 anni, e capitale unita e indivisibile dello Stato di Israele». Un messaggio, pensando al dramma di Mosca, seguito da una dichiarazione chiara e forte, che sembra tracciare le coordinate di quello che, nella mente del premier, richiama un asse del bene contrapposto a quello del male (Iraq, Iran, Corea del Nord). «Israele, Stati Uniti e Russia hanno capito che il vero problema è fronteggiare il terrorismo musulmano radicale. Non ci possono essere compromessi con i terroristi. Non esiste un terrorismo buono e uno cattivo». E' una giornata delicata per il 74enne Ariel Sharon. Il suo governo rischia la crisi, non si escludono defezioni laburiste e nemmeno elezioni anticipate. Nell'ufficio del primo ministro entrano rappresentanti della Confindustria israeliana, sindacalisti, politici impegnati ad affrontare una situazione d'emergenza: approvare la Finanziaria entro 24 ore mentre il Paese è in stato di guerra. Ma il capo del governo è uomo di parola, e concede un'ora e 40 minuti del suo tempo al Corriere della Sera . All'intervista sono presenti il nostro direttore Ferruccio de Bortoli e il corrispondente da Gerusalemme Guido Olimpio.
Partiamo dalla Russia, dove si è consumata una tragedia: il raid dei terroristi nel teatro, l'attacco delle forze speciali, il sacrificio di un alto numero di ostaggi. Lei ha manifestato il suo incondizionato sostegno al presidente Vladimir Putin, chiamandolo «anima gemella» nella lotta contro il terrorismo. Ma non crede che se uno Stato utilizza, per comprensibili ragioni, un gas pericoloso, anche i terroristi potrebbero copiare l'idea e utilizzare lo stesso micidiale strumento nel futuro?
Ariel Sharon mi guarda diritto negli occhi: «I terroristi non hanno bisogno di esempi. Che si tratti di terrorismo internazionale, globale, regionale, locale, usano tutti i mezzi di cui dispongono. Noi soffriamo il terrorismo arabo-palestinese da cinque o sei generazioni. Anche voi in Italia avete conosciuto il terrorismo. Grazie a Dio, ora ne siete usciti. Come le ho detto, ci sono tre Paesi che, in questo momento, sono aggrediti dal terrorismo islamico: Israele, Stati Uniti d’America e Russia. Però, attenzione! Ricordate che il terrorismo può diffondersi rapidamente, come il fuoco. Lei mi chiede di Putin. Prendere quella decisione era molto difficile. C'erano quasi mille innocenti, catturati da un gruppo di 50 terroristi musulmani radicali che avevano intenzione di uccidere tutti, se le loro richieste non fossero state soddisfatte.
«Credo che il presidente russo abbia capito, e noi con lui, e il presidente Bush con lui, che non poteva accettare alcun compromesso. Il terrore è terrore. Distrugge i nostri valori, le nostre democrazie, il nostro modo di vivere. Ho parlato con Putin subito, e più volte durante quei tre giorni terribili la settimana scorsa. La sua è stata una decisione importante e molto coraggiosa. Dovrebbe essere un esempio incoraggiante della determinazione con cui bisogna agire per evitare d'essere completamente distrutti. Certo, ci sono state tante vittime quando i russi hanno tentato di salvare gli ostaggi. Mai Putin avrebbe immaginato di sacrificare innocenti. L'ho incontrato molte volte e lo ammiro».
Lei dice che il fuoco può diffondersi rapidamente, e il pensiero corre all'Europa.
«Noi abbiamo tanti amici. Il presidente Bush è un amico, il presidente Berlusconi è un amico. Ma non saremo mai disposti a delegare la nostra sicurezza a nessuno. Sa quanti sono stati i morti israeliani negli ultimi due anni? 643. Fatte le debite proporzioni, è come se in Italia vi fossero state 6430 vittime. Quale sarebbe stata la reazione del vostro Paese? Vede, questa è la nostra terra e la difenderemo sempre, senza cedere ad alcun compromesso. C'è una differenza tra Terra santa e Terra promessa. La Terra santa è di tutti i credenti, la Terra promessa è degli ebrei, e di nessun altro. Certo, per arrivare alla pace siamo pronti a dolorose concessioni».
Cosa sono, per lei, le dolorose concessioni?
«Siamo pronti a dividere la nostra terra. Israele ha vinto tutte le guerre in cui è stata coinvolta. Tuttavia, siamo un popolo che vuole la pace. Ai nostri bambini la prima parola che insegniamo è shalom, cioè pace. Sa che cosa insegnano i palestinesi ai loro piccoli? Persino nei giardini d’infanzia insegnano l'odio.
«Malgrado ciò, abbiamo presentato il nostro piano di pace agli Stati Uniti, che prevede: 1) completa cessazione del terrorismo, delle ostilità, dell'incitamento; 2) periodo intermedio per sviluppare le relazioni tra israeliani e palestinesi. Ciascuno deve fare qualcosa. Esempio, l'Autorità palestinese deve arrestare, interrogare, incarcerare i terroristi, smantellare le varie organizzazioni come Hamas, Jihad islamica, Fronte popolare. E poi raccogliere le armi illegali, consegnarle a una terza parte, perché vengano distrutte. Noi, invece, dobbiamo creare e garantire contiguità fra i territori palestinesi, in modo che loro possano muoversi liberamente».
Ho letto che lei pensa ad un treno veloce che corra su un binario sopraelevato tra Gaza e la Cisgiordania, territori lontani tra di loro.
«Sì, è una mia idea. Quel treno l'ho chiamato Gaza-Tulkarem Express. Ho anche suggerito una grande autostrada da nord a sud».
Come in Germania, durante la guerra fredda, quando Berlino era nel cuore dell’Est comunista.
«Semplicemente: un treno palestinese, che utilizza una nostra ferrovia, e che paga per questo, sarebbe l'ideale. Niente check point, niente controlli».
Quindi, alle sue condizioni, accetta uno Stato Palestinese?
«Avevo anche proposto, in una fase intermedia, uno Stato palestinese completamente smilitarizzato, ma senza decidere ancora le sue frontiere definitive. Potrebbe andare avanti così alcuni anni, poi, se tutto sarà normale, potremmo sederci e tracciare i confini».
Lei ha detto spesso che il conflitto con gli arabi dura da un secolo. A che punto siamo, in questo momento? Quanto manca alla pace?
«Io sono d'accordo su uno Stato palestinese, e voglio rifarmi a quanto detto dal presidente Bush, quando immagina due Stati, Israele e Palestina, l'uno accanto all’altro in pace e in sicurezza. Lei mi chiede a che punto siamo. Abbiamo dei contatti con i palestinesi. Io non incontrerò mai Arafat, ma con altri discuto direttamente».
Con chi? Si sono fatti dei nomi.
«No, non faccio nomi. Se li facessi, le persone che vedo rischierebbero d'essere ammazzate».
Ci può descrivere che cosa vorrebbe? Insomma, cosa lei ha in mente?
«Vorrei che un primo ministro palestinese venisse eletto, con l'obiettivo di creare un cuscinetto tra Arafat e il governo palestinese. Non chiedo un saggio di Sion, ma penso a un personaggio non coinvolto nel terrorismo. Poi penso a un ufficiale esecutivo, sotto il ministero dell'Interno, in grado di ridurre il numero di polizie palestinesi, ce ne sono 12 o 13, e avviare le riforme. Lo possono trovare. Poi c'è l'aspetto finanziario. Ci deve essere un ministro delle finanze, davvero indipendente. Posso dirle che vi sono alcuni sviluppi, modesti per ora, che potrebbero rivelarsi interessanti. Il problema infatti è che Arafat, adesso, controlla gli apparati di sicurezza e la cassa. Quindi, se viene privato di questi, ci sarà la possibilità di prendere misure efficaci contro il terrorismo. Altrimenti, saremo costretti a prenderle noi».
Lei ha detto molte volte, anche a me nel 1988, che «Arafat deve essere ucciso».
«Quando lo dissi allora, tutti rimasero sconcertati. Ora i tempi sono cambiati, capisco che non posso più esprimermi in quei termini. Meglio dire, in maniera più gentile, che deve essere rimosso dalla nostra società».
Darà mai l'ordine di ucciderlo?
«No. Quando sono diventato premier, ho incontrato il presidente Bush. Mi è stato chiesto di non colpire fisicamente Arafat, e io l'ho promesso. Per me un sì è un sì, un no è un no».
Visto che lei parla di un cuscinetto tra Arafat e il governo dell'Autorità palestinese, comprendo che lei è disposto ad accettare che Arafat resti, quantomeno come simbolo.
«Simbolo di non so che cosa, ma la mia risposta è sì, come simbolo lo accetto. Nulla di più. Io parlo con chi è pronto alla pace, con chi capisce che uno non può imporre a Israele una soluzione o obbligarci alla resa, con chi capisce che ogni traguardo si può raggiungere con la reciprocità. Siamo per il negoziato, non per il terrorismo. Arafat pensa di poterci piegare accrescendo le nostre perdite. Ma tra i palestinesi c'è un numero crescente di persone che pensano davvero alla pace, per questo sono ottimista».
Una domanda che mi tormenta, signor primo ministro. Perché, due anni fa, lei decise di fare la famosa passeggiata sull'Haram el Sharif (la Spianata delle moschee sacra ai musulmani, ndr), o sul Monte del Tempio sacro per gli ebrei...
Un lampo di rabbia infiamma il volto, sinora sereno, del premier.
«Perché dice questo? Perché dovrebbe chiamarlo Haram el Sharif? E' il Monte del Tempio, come è scritto nella Bibbia».
Mi consente di concludere la domanda?
«Prego».
Volevo dire che molti, già due anni fa, dicevano che i Palestinesi erano pronti da tempo a cominciare la seconda intifada. Erano in attesa di un pretesto, e lei glielo ha fornito.
Il premier si placa.
«Arafat prese la decisione della rivolta subito dopo il fallimento delle trattative di Camp David, condotte dal mio predecessore e buon amico Ehud Barak, che non si era accorto che cosi gli offriva la possibilità di piazzare terroristi palestinesi persino sui muri della città vecchia di Gerusalemme. Eppure Arafat rifiutò. La sua tragedia è la tragedia del terrore. E poi, guardi, sono stato sul Monte del Tempio molte volte».
Ma non accompagnato da duemila soldati, come l'ultima volta.
«Il numero mi pare esagerato. Ma non sono io che decido sulla mia sicurezza. E poi, io sono un ebreo, per me essere ebreo è la cosa più importante. Quel giorno non sono entrato in una moschea, ma sono salito sul monte del Tempio, che per gli ebrei è il luogo più sacro di tutti i luoghi sacri!».
Un grande giudice israeliano, Haim Cohen, ex presidente della Corte suprema, scomparso di recente, mi ha detto molte volte che Gerusalemme è abbastanza grande per essere la capitale di due Stati. Ci ha mai pensato?
«La risposta è no. Le chiedo: ha mai pensato di dividere Roma?».
Quindi, no per sempre.
«Gerusalemme sarà aperta a tutte le fedi, ma sotto il nostro controllo perché è indivisibile. Quindi, su Gerusalemme la risposta è no, come no è la risposta al diritto al ritorno dei palestinesi. Non sono argomenti che discuteremo o considereremo».
Passiamo all'Iraq. Lei ha incontrato Bush 7 volte in 18 mesi. Pensa che la guerra sia inevitabile? C'è ancora spazio per una soluzione diplomatica?
«A Washington ho capito che l'obiettivo del presidente Bush è di disarmare l'Iraq. Parliamo non soltanto di elementi radicali ma di una leadership malsana, che uccide con le proprie mani i parenti e i ministri. L'Iraq è un grande Paese, che ha potuto inviare all'estero migliaia di studenti, che hanno goduto di piena libertà. Ora Bagdad dispone di team professionali capaci di sviluppare armi di distruzione di massa. Già all'inizio degli anni '80 erano vicinissimi alla costruzione dell'arma atomica.
«Uno dei più grandi successi del governo guidato da Menachem Begin, e io ebbi un ruolo importante nella decisione, fu di distruggere il reattore nucleare di Osirak, vicino a Bagdad. Altrimenti avrebbero avuto la bomba nucleare ben prima. Ora, noi crediamo che non l'abbiano ancora, ma in quattro anni senza ispettori avranno lavorato come matti per produrla. Sappiamo però che hanno armi chimiche e biologiche».
Secondo le sue informazioni, tra quanto tempo potranno avere l'arma nucleare? Anni? Mesi?
«Potranno averla da uno a due anni. Dispongono di 20-30 missili. Ma nello stesso tempo sappiamo che ci sono scienziati iracheni che lavorano in Libia».
Ma come? Pensa che la Libia abbia la bomba atomica?
«Non ancora, ma ci lavorano».
Dunque, lei ritiene l'Iraq il pericolo più imminente.
«E' un pericolo non soltanto per Israele, ma per l'intera regione, per il mondo».
E se arrivassero gli ispettori dell'Onu?
«Sarebbe inutile. Gli iracheni sono furbi e hanno avuto il tempo di occultare i loro segreti. L'Iraq è grande. Certo, poi bisognerà pensare ad altri Paesi. Per esempio, l'Iran, che ha fatto molti sforzi per dotarsi della bomba atomica, poi la Siria, e ancora gli Hezbollah libanesi. Sono sorpreso da come il presidente siriano Bashar el Assad sia affascinato dall'Hezbollah. Credo che se gli Usa attaccassero l'Iraq, Iran, Siria e Hezbollah entrerebbero in azione per sostenere Bagdad, creando dei pericolosi diversivi. Ripeto: la lotta contro il terrorismo è globale, ed è ciò che tutti dovrebbero capire».
E' vero che vi sono specialisti israeliani nel nord dell'Iraq?
«No, assolutamente. Non abbiamo alcuna intenzione di coinvolgerci in quella vicenda».
Quante chance vi sono che cominci la guerra contro l'Iraq?
«Non me lo chieda. Non mi riguarda».
Allora le chiedo quante chance lei ha di salvare il suo governo dalla crisi e dalle elezioni anticipate.
«Io ho sempre creduto ai governi di unità nazionale. Ma da una parte c'è l'unità, dall'altra vi sono le responsabilità. E allora, si aprono tre strade: 1) Spero che la crisi venga evitata, perché non è il momento di provocarla; 2) Se i laburisti abbandonano la coalizione, penso ad un governo di minoranza; 3) Se anche questo fallisce, non restano che le elezioni anticipate».
Lei ha accennato più volte alla sua amicizia con il presidente Berlusconi. Le chiedo: il nostro vicepremier, Gianfranco Fini, leader di un partito politico discendente dal fascismo, da tempo ha scelto la piena democrazia ed ha chiesto perdono per le leggi razziali contro gli ebrei. Lo inviterà in Israele? Se sì, quando?
«Sappiamo che ci sono stati dei cambiamenti. Sono contento e apprezzo realmente che Fini abbia cambiato idea e parli un diverso linguaggio. E' un passo molto importante. Ma mi lasci dire che in questo momento abbiamo molti problemi da affrontare, quindi mi permetta di non risponderle».
Il premier sorride. «Torni fra qualche mese per un'altra intervista». E' convinto che sarà ancora in sella.

Invitiamo i lettori ad inviare il proprio plauso alla redazione del Corriere della Sera per la grande evidenza data all'intervista. Cliccando sul link sottostante si aprirà un' e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@corriere.it

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