Per i palestinesi il passato rimane il futuro
Analisi di Ben Cohen
(traduzione di Yehudit Weisz)
A giudicare dall’andamento attuale, il prossimo conflitto su Gaza - e per estensione, la questione palestinese ancora irrisolta - avverrà probabilmente nel 2028, proprio in corrispondenza dell'ottantesimo anniversario della creazione di Israele. E a giudicare dal clima attuale, i prossimi sette anni che ci separano da quella data, produrranno l’insignificante progresso politico degli ultimi 13, un periodo in cui abbiamo assistito a due guerre su vasta scala tra Israele e Hamas, con una terza ora in vista. Nell'ondata di commenti che ha accompagnato l'escalation delle ostilità durante gli ultimi giorni, numerosi osservatori hanno sottolineato che la leadership di Hamas sta combattendo una guerra inutile che è destinata a perdere. E quando Hamas avrà perso, ai Gazawi che tiene in pugno descriverà la sua sconfitta come una vittoria, proprio come aveva già fatto nel 2009 e nel 2014. (Questo non è del tutto sbagliato: quando sei un gruppo terroristico senza alcun mandato democratico di governare il territorio sotto il tuo controllo, sopravvivere a una guerra con il tuo status di padrone intatto, conta come una vittoria.) Come in passato, lo schema della storia recente suggerisce anche stavolta che, non appena le ostilità saranno cessate, la guerra legale e politica diretta contro Israele si farà più intensa. La tesi che Israele sia il più orribile degli anacronismi - uno Stato di apartheid che discrimina i suoi cittadini in base alla loro origine razziale - sarà avanzata con rinnovato vigore, attraverso le campagne delle ONG filo-palestinesi per condannare i leader politici e militari israeliani per crimini di guerra, accanto all’appoggio dei vari gruppi che sollecitano il boicottaggio dello Stato ebraico. Sulla stessa linea, continuerà sicuramente, e probabilmente peggiorerà, la tendenza a considerare le comunità ebraiche al di fuori di Israele responsabili di questi inventati crimini israeliani. Nel 2009 e nel 2014, le comunità ebraiche hanno appreso attraverso amara esperienza che un rinnovato conflitto che coinvolge le forze armate israeliane avrebbe scatenato aggressioni fisiche contro ebrei e attacchi a proprietà ebraiche a migliaia di chilometri di distanza dalla regione. Ora, nonostante il fatto che la popolazione ebraica in Europa sia al suo livello più basso dall'anno 1170 (secondo un recente studio ), abbiamo tutte le ragioni per aspettarci che questi oltraggi diventino più frequenti, più sfrontati e più violenti.
Come sempre, ci saranno quei politici europei che esprimeranno la loro vergogna per il fatto che nel continente della Shoah, ancora una volta vengano infrante le finestre delle sinagoghe, così come ci saranno quelli che insistono sul fatto che le offese inflitte agli ebrei europei sono un ulteriore elemento nella lista dei reati israeliani. Se non fosse per le operazioni aeree israeliane a Gaza o per gli sgomberi dei palestinesi a Sheikh Jarrah, questi politici di sinistra ci fanno comprendere che i piromani non darebbero fuoco alle sinagoghe, che gli ebrei anziani che vivono da soli non se ne starebbero seduti terrorizzati nelle loro case e che indossare una kippà sui mezzi pubblici non sarebbe un invito a un pestaggio letale. Loro non si chiedono (e non lo faranno mai) se gli scontri militari di Israele possano davvero spiegare perché gli ebrei vengono insultati come discendenti di “scimmie e maiali” alle manifestazioni organizzate dai musulmani nelle città europee, o perché videoregistrazioni di attacchi umilianti contro ebrei haredim in segno di “solidarietà” con i palestinesi, sono diventati un meme di Internet da Anversa in Belgio, a Brooklyn a New York, a Gerusalemme in Israele. Man mano che l'antisemitismo correlato a Israele si intensifica, parallelamente ci sarà una tendenza alla negazione dell'antisemitismo, per lo più guidata da accademici, con occasionali comparse di musicisti o romanzieri. Sarà cantato con più fervore, Il mantra secondo cui l'antisionismo è solo un'espressione di antirazzismo, piuttosto che una forma di odio nei confronti degli stessi ebrei. I governi nazionali, i consigli comunali, gli istituti scolastici, le forze dell'ordine e altre istituzioni saranno sollecitati da sedicenti esperti - molti dei quali ebrei di sinistra che insegnano scienze sociali in varie università - ad ignorare qualsiasi denuncia di antisemitismo collegata alla denigrazione del sionismo o di Israele. C'è un'alternativa a questa catena di eventi? La dinamica delineata qui sopra si dipana perché le guerre calde tra Hamas e Israele di solito finiscono con il primo castigato ma imbattuto, e il secondo che ha inferto colpi potenti alle infrastrutture del nemico, pur sapendo che le sue forze di difesa dovranno probabilmente affrontare la stessa pericolosa operazione di nuovo tra qualche anno.
Quanto al rovesciamento del regime di Hamas da parte delle Forze di Difesa israeliane, ciò significherebbe riprendere l'occupazione diretta di Gaza, che diventerebbe rapidamente una trappola mortale in stile libanese o iracheno per i giovani soldati israeliani. Con questa opzione dietro le quinte, lasciare al potere un Hamas indebolito, e quindi responsabile del benessere e del governo della popolazione di Gaza, sembra di gran lunga preferibile per Israele. Tuttavia, una volta scelta questa strada, le tendenze degli anni precedenti si ripeteranno con ogni elemento chiave del modello - aumento della violenza antisemita all'estero, offensive legali contro i cittadini israeliani - che diventeranno più pronunciate rispetto all'ultima volta. L'amara verità, almeno per il momento, è che sfuggire a questo schema richiede una completa trasformazione del modo in cui una buona parte del mondo, in particolare la sua popolazione musulmana di quasi 2 miliardi, percepisce la questione palestinese. Quella trasformazione significherebbe concentrarsi sul futuro palestinese e non sul passato palestinese. Significherebbe abbandonare il cosiddetto “diritto al ritorno” a favore di un programma internazionale generosamente finanziato per risarcire i rifugiati palestinesi e integrare i loro discendenti come cittadini dei Paesi in cui sono nati. Significherebbe abbandonare la tattica e il linguaggio dei boicottaggi e abbracciare l'imprenditorialità comune. Significherebbe riconoscere e sconfessare in massa gli odi popolari radicati che portano alcune persone a dare fuoco alle sinagoghe, anche quando sono cresciuti con gli ebrei come loro vicini. Significherebbe dire al popolo palestinese, in termini chiari, che i loro miti fondanti sono il più grande ostacolo al progresso dei loro figli. Ma proprio come non è compito degli ebrei ripulire il mondo dall'antisemitismo, non è compito di Israele riformare la società e la politica palestinese. Questo è un compito che tocca ai palestinesi stessi. Tutto quello che possiamo fare, è sperare che i cinici tra noi abbiano torto riguardo alle zero aspettative che attualmente nutriamo quando si tratta di quel processo. Ciò andrebbe davvero contro la tendenza storica.
Ben Cohen, esperto di antisemitismo, scrive sul Jewish News Syndicate