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La Stampa Rassegna Stampa
28.10.2002 Un articolo che informa correttamente
Israele cerca di agire sulle strutture più solide della guerriglia palestinese

Testata: La Stampa
Data: 28 ottobre 2002
Pagina: 7
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «A Jenin la fucina dei terroristi»
Riportiamo un articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa il 28 ottobre:
"Poche lande sono più desolate di Jenin, capitale del terrorismo, rioccupata da quattro giorni dall'esercito israeliano dopo mesi di stretta sorveglianza; e, anche, occupata dall'inizio dell'Intifada da tutte le organizzazioni terroristiche (Hamas, Jihad, Brigate di Al Aqsa) che ne hanno fatto la base di partenza del cinquanta per cento di tutte le azioni. Chi ricorda Jenin durante il processo di pace la rivede linda, verde, piena di case nuove, ornata di negozi, buganvillee che ancora sopravvivono sulle rovine.

Adesso, nelle strade deserte per il coprifuoco, dentro un veicolo corazzato che salta sui fossi, la sofferenza dell'intero mondo circostante buca i giubbotti antiproiettile più di quanto potrebbero le pallottole dei cecchini appostati sui tetti: la sofferenza del vuoto assoluto, gli occhi della gente che ci guarda da dietro le finestre e non può uscire, la miseria della vita dei ragazzi che a nugoli escono dalle case a un tratto, corrono verso i veicoli e lanciano pietre senza che i soldati reagiscono; e la sofferenza dei soldati israeliani, piazzati da quattro mesi intorno a questa «capitale del terrore», dove in aprile furono ingiustamente accusati di perpetrare una strage che non c'è mai stata, soldati che hanno avuto diciassette feriti nelle ultime settimane, 23 morti in aprile, e l'ordine di procedere alla caccia di terroristi con le pinzette mentre tutto intorno è minato; soldati di leva di diciotto anni cui, mentre montiamo sul veicolo, viene ordinato di saltar giù subito a nostra difesa nel caso ci sparino addosso; riserve, ovvero medici, avvocati scaraventati nelle tende bollenti e sporche per mesi, vanno in queste ore casa per casa presi di mira dai cecchini, con il mitra spianato, a cercare Iyad Sawalka e altri dodici membri importanti della Jihad Islamica.

Sono 500 soldati circa, hanno 15 tank (ne incontriamo tre piazzati in città su angoli strategici), 20-30 mezzi corazzati leggeri, 2 bulldozer. In città, nel bianco della casbah e del campo profughi, dove sui muri campeggiano i ritratti dei «martiri» terroristi locali, e dove le rovine sono state spianate, incontriamo, nel vuoto del coprifuoco, alcuni bambini palestinesi che giocano, pochi uomini che fumano e discutono, qualche donna sulle terrazze che sbatte i tappeti o stende i panni, un'ambulanza e una macchina di Mediciens sans frontiere; non riusciamo a parlare con loro, ma si vede la desolazione, e la miseria. Stavolta, anche se le ambulanze vengono controllate, gli israeliani cercano di mantenere uno standard umanitario possibile: un'operazione che appare di lunga durata «finché non avremo preso i terroristi: può avvenire oggi, può avvenire fra un mese».

Alcuni negozi restano aperti, e i bambini vanno a comprare il cibo; alcuni camion al giorno di derrate alimentari entrano comunque; molti abitanti sono rimasti a lavorare in Israele, e aspettano che la chiusura finisca per tornare.

Qui che si gioca all'ultimo sangue una strategia che ormai è più precisa di quella di Komat magen, muro di difesa: prenderli tutti, uno a uno, almeno i capi, agire sulle strutture del terrore senza perseguire simboli (niente bombardamenti, pochissimi bulldozer), andare fino in fondo contro le infrastrutture, la fabbriche di cinture, di armi, o di missili Kassam.

Nessuna azione dimostrativa, questo è l'ordine, basso profilo, poche case occupate dall'esercito per controllare dalle finestre la situazione, ricerche casa per casa, nessuno sparo che non sia motivato dalla caccia al terrore, oppure dal rispondere quando si venga attaccati. E' a Jenin che si aggiusta il tiro della guerra più globale al terrorismo, in cui si pone la domanda basilare: come risparmiare più possibile i civili che sono ovunque, perché sono l'acqua in cui il terrore nuota e i terroristi stessi sono civili.

L'operazione si chiama «Avamposto». Il comandante usa un tono dimesso, la strategia è «molto semplice»: dove sono i terroristi, là si va a cercarli, con intenso uso di intelligence, con rispetto per la popolazione, ma con una assoluta determinazione: «L'attacco avviene quando le organizzazioni, ringalluzzite da qualche attacco riuscito, trovano nuovi suicidi pronti a partire.

E' questo il caso: Hamas era quasi a terra, Fatah lo stesso, ma la Jihad ha seguitato a ricevere finanziamenti e esplosivo (divenuto molto più raro) e a poter reclutare. C'è stato l'attentato di Kar Kur, non ci siamo mossi per punire, ma per prevenire la raccolta dei frutti del successo, che sapevamo sarebbe inevitabilmente giunta; adesso, fra la casbah e il campo profughi, resta una dozzina soltanto di uomini da prendere.

Il sostegno della popolazione, così forte in aprile, adesso è decisamente minore. Le critiche ad Arafat sono molto forti. Però c’è un nucleo durissimo, che riesce a tenere, a influenzare, a spaventare: di quello andiamo in cerca». I soldati hanno ucciso nelle ultime settimane due persone, racconta il comandante: lo dice con l'aria di confessare qualcosa che gli duole alquanto, che mentre i soldati circondavano una casa, un uomo si è affacciato alla finestra subitaneamente, e pensando a un cecchino i soldati hanno sparato. Il comandante non dice «inevitabile».

Uno dei 30 palestinesi arrestati è un terrorista suicida in partenza verso il suo obiettivo; intorno alla città di circa 60mila abitanti, compresi i 12mila del campo profughi, si sta a tratti scavando una trincea di due metri circa. Per arrivare a Jenin abbiamo percorso una delle arterie più importanti che dal Sud al Nord percorre per intero Israele: è tutta punteggiata di terrorismo.

Dalla finestra dell'auto, sfilano gli incroci ripuliti in cui sono esplosi parecchi autobus, ultimo quello al semaforo che porta a Kar Kur. Là lunedì scorso ci sono stati 14 morti e 6 feriti; Jenin è la città da cui è uscito quest'ultimo attentato, così come altri 30 attacchi suicidi. Kar Kur, Givat Ada, Umm el Fahem, Megiddo. Alex numero uno, Alex numero due, tutti e due russi, Elazar di Tel Aviv, Shaul di Or Akiva, tutti Golani, soldati di un'unità di élite, saltano sulle buche insieme alla cronista.

I giovani con le pietre sciamano d'un tratto insieme come uccelli scuri, una frotta di gru come quelle di passo su Israele in questi giorni, chissà cosa si cela nella case dietro di loro, madri stanche, padri innervositi, lutti, fame, terroristi pronti con le cinture; quando tirano le pietre Alex uno accellera per scappare in fretta, Shaul, scuro ragazzo stanco e innervosito, si volta e dice «io gli parlo in arabo: qualcuno dice che non ne possono più, sono davvero stufi di vivere nella città dell'incubo più nero.

Ma è come se avessero bevuto senza saperlo dell'acqua avvelenata, il loro corpo e la loro mente sono tutti volti contro di noi. Perché siamo qui dentro, dice lei...Ma abbiamo un'altra scelta?» "

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