Le storie delle donne ebree nella Resistenza Commento di Enrico Franceschini
Testata: La Repubblica Data: 10 maggio 2021 Pagina: 27 Autore: Enrico Franceschini Titolo: «Le storie ritrovate delle partigiane ebree che fecero la Resistenza»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/05/2021 a pag. 27 con il titolo "Le storie ritrovate delle partigiane ebree che fecero la Resistenza", il commento di Enrico Franceschini.
Enrico Franceschini
La copertina
«Come pecore al macello », un’espressione derivata dalla Bibbia, è diventato un mito da sfatare. Si riferisce all’idea che gli ebrei si sarebbero lasciati portare passivamente allo sterminio durante l’Olocausto e di conseguenza andrebbero parzialmente considerati responsabili delle proprie sofferenze. Abba Kovner, uno dei leader della Resistenza ebraica nel ghetto di Vilnius, più tardi animatore di un movimento clandestino per vendicarsi della Shoah uccidendo ex-criminali nazisti in giro per l’Europa, e in seguito pluripremiato poeta, la citava spesso per indurre i suoi partigiani all’azione contro i tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Nei primi anni di esistenza di Israele, c’era chi la usava per demonizzare i sopravvissuti ai lager. Al di fuori dello Stato ebraico, la frase è entrata nei luoghi comuni dell’antisemitismo. Per smentirla dovrebbe bastare la rivolta del ghetto di Varsavia, in cui 13 mila ebrei morirono nei combattimenti contro i soldati del Terzo Reich. Nel 2008 un film con Daniel Craig, per una volta fuori dal ruolo dell’agente 007, Defiance – I giorni del coraggio, tratto dal libro Defiance. Gli ebrei che sfidarono Hitler di Nechama Tec (Sperling & Kupfer), ha rivelato al grande pubblico la guerriglia organizzata da due fratelli ebrei polacchi contro il nazismo nelle foreste della Bielorussia. Ma c’è ancora molto da fare, perlomeno in Occidente, per capovolgere il persistente stereotipo degli ebrei visti come agnelli sacrificali. Un libro che esce in questi giorni negli Stati Uniti, The Light of Days: the Untold Story of Women Resistance Fighters in Hitler’s Ghettos (La luce dei giorni: la storia mai raccontata delle donne combattenti nei ghetti di Hitler), fa affiorare uno dei risvolti più eroici della Resistenza ebraica. E anche questo è in procinto di arrivare al cinema o sugli schermi di Netflix: Steven Spielberg, il regista di Schindler’s List e Munich, ne ha già comprati i diritti. Tutto comincia dal casuale ritrovamento da parte di Judy Batalion, 44enne storica ebrea canadese di origine polacca, di un manoscritto in yiddish alla British Library di Londra. «Erano 175 pagine di resoconti sulle donne ebree che avevano combattuto contro il nazismo », dice l’autrice al quotidiano israeliano Haaretz. Grazie alla sua conoscenza della lingua, lo ha dapprima tradotto in inglese, cercandovi ispirazione per un romanzo. Ben presto si è accorta che la storia vera sarebbe stata più romanzesca di qualsiasi fantasia e ha deciso di farne la base per anni di ricerche e interviste sul campo con superstiti o familiari delle vittime. Il risultato è un libro che, commenta Haaretz, sembra una versione realistica del film di Tarantino Bastardi senza gloria, in cui però le protagoniste sono tutte femminili. C’è Hannah Szenes, che lascia Gerusalemme per farsi paracadutare in Jugoslavia dove allaccia rapporti con i partigiani di Tito allo scopo di aiutare gli ebrei ungheresi destinati ad Auschwitz: catturata dai nazisti sulla via di Budapest, viene torturata senza rivelare alcuna informazione, condannata a morte e fucilata, rifiutando di essere bendata per guardare in faccia il plotone di esecuzione. C’è Bela Hazan, una intrepida ebrea di 19 anni che si fa assumere nell’ufficio della Gestapo per poter trasmettere informazioni, denaro e armi ai combattenti del movimento sionista giovanile Dror in Polonia. C’è Zivia Lubetkin, una ventenne che gioca un ruolo chiave nella rivolta del ghetto di Varsavia come membro dell’Organizzazione Combattente Ebraica. «Alcune di loro, finita la guerra ed emigrate in Israele, non hanno voluto più parlare di una parte così dura e dolorosa della propria vita », racconta l’autrice. «Altre avevano un tremendo senso di colpa per essere sopravvissute. Ma è una storia che andava raccontata » .
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