Il nuovo libro di Bernard-Henri Lévy Analisi di Anais Ginori
Testata: La Repubblica Data: 05 maggio 2021 Pagina: 30 Autore: Anais Ginori Titolo: «Bernard-Henri professione reporter»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 05/05/2021, a pag. 30, con il titolo "Bernard-Henri professione reporter", il commento di Anais Ginori.
Anais Ginori
Bernard-Henri Lévy
Sur la route des hommes sans nom, sulla strada degli uomini senza nome, è forse il libro più personale che Bernard-Henri Lévy abbia scritto da tempo (edizioni Grasset). Non è solo la raccolta dei reportage che ha fatto nell’anno della Grande Paura, continuando a viaggiare nonostante lockdown, quarantene e frontiere chiuse, dalle rovine di Mogadiscio, al fango ghiacciato delle trincee ucraine, alla savana della Nigeria in fiamme. Nella prefazione, intitolata "Ce que je crois", quello in cui credo, il filosofo abbozza un principio di autobiografia, quasi un testamento intellettuale, rispondendo a una domanda che lo rende una figura a modo suo unica nel paesaggio culturale d’Oltralpe. Dal primo viaggio in Bangladesh, giusto cinquant’anni fa, alla guerra del Tigré, dall’assedio di Sarajevo, cosa ha spinto un filosofo come lui a trascorrere parte della vita nei posti più inospitali e pericolosi del mondo, in cerca di storie e volti da portare sotto ai riflettori? Ogni partenza, spiega, è suscitata da una voce interiore che rende insopportabile, lui dice addirittura "disgustosa", l’indifferenza che circonda eventi solo apparentemente lontani. Non è un istinto, ma un riflesso forgiato tra libri, famiglia, maestri, che insieme hanno costruito questa sua forma di pensiero in azione. Lévy rende omaggio a una generazione "luminosa", la sua, che ha aderito a ideologie totalitariste, contro cui lui stesso si è poi scagliato, ma che ha insegnato a guardare oltre il cortile di casa.
La copertina dell'edizione francese
«I più ardenti tra i giovani intellettuali — ricorda — si tuffarono in un maoismo che generò molte mostruosità di pensiero, ma che aveva anche una bella parola d’ordine: guerra contro l’egoismo, cioè contro paurosi, pusillanimi, rapaci di Sua Maestà il Sé». Altri tempi, nota con una punta di nostalgia l’autore, ora che la Francia abbandona spesso l’ideale dell’universalismo e l’estrema sinistra sembra più impegnata in battaglie su decolonialismo, comunitarismo, differenzialismo, e altri "ismi" poco inclusivi. Nella genealogia intellettuale di Lévy ci sono stati molti maestri, da Michel Foucault a Jacques Derrida a Georges Canguilhem, ma c’è stato soprattutto l’esempio paterno, un uomo due volte eroe: prima impegnato in Spagna tra i volontari stranieri al fianco dei repubblicani contro il generale Franco, poi nella divisione francese guidata dal generale Diego Brosset che nel maggio 1944 fu l’avanguardia nella campagna d’Italia, fino a vincere la battaglia di Cassino. Il filosofo porta con sé la lezione di coraggio che Brosset aveva scritto a proposito del padre: «André Lévy, autista di ambulanza, sempre volontario, giorno e notte, qualunque fosse la missione, ha effettuato evacuazioni sotto il fuoco dei mortai con totale sprezzo del pericolo, andando in diverse occasioni a cercare i feriti sotto il violento fuoco nemico». Non c’è da stupirsi dunque se, a settantadue anni, il filosofo abbia deciso di rimettersi in strada «per ascoltare meglio le vittime e cercare di penetrare un po’ del mistero del crimine assoluto». Sfidando il "trionfo dei fantasmi digitali", in una società sempre pi ù asettica e indifferente, ha voluto restituire le storie di uomini senza nome. Quando in tanti nelle capitali occidentali si sono adeguati al diktat "restate a casa", lui ha deciso di andare da quelle persone che un tetto non ce l’hanno mai avuto o chi, come i migranti di Lesbo, non hanno di che lavarsi le mani. Nella primavera scorsa, quando è scoppiata la pandemia, il filosofo si è ostinato a proseguire la serie di reportage commissionati da Paris Match , e pubblicati su Repubblica , tra i cristiani perseguitati in Nigeria, «dai curdi senza Stato, abbandonati dalle nazioni che negano loro il diritto di essere nostri fratelli». Ha deciso di tornare in Bangladesh con l’ultimo volo prima della chiusura delle frontiere e poi di andare nell’ovest della Libia dove sapeva di non essere più il benvenuto, scampando a un agguato. Il progetto, diventato anche un film dal titolo Une autre idée du monde , è andato avanti mentre il mondo a poco a poco si richiudeva, diventando sempre più piccolo.
«Mai nell’epoca moderna — scrive l’autore — l’umanità è stata così separata da se stessa e divisa. E mai il fragile ma sacro principio dell’unità della razza umana, che esiste dalle origini dell’Occidente giudeo-cristiano, è stato così mostruosamente sfidato ». Lévy continua a difendere una forma di internazionalismo che fa parte del suo pedigree e lo ha portato nel 1971, quando usciva dall’École Normale Supérieure, a seguire le orme del padre rispondendo alla chiamata di André Malraux per la creazione di Brigate internazionali nella guerra d’indipendenza del Bangladesh. «Sono partito — ricorda — senza un vero piano di ritorno, staccandomi dalle mie università, dalla mia carriera di professore e dalla mia famiglia». Da quell’esperienza, raccontata nel primo libro, Lévy non ha mai smesso di cercare le zone inesplorate o dimenticate, gli "spazi bianchi" che Conrad individuava nelle mappe e che per il filosofo sono ancora oggi altrettante richieste di "giustizia e fratellanza". E ai più cinici che guardano con scherno le battaglie di Bhl volendo farne una caricatura, risponde citando Don Chisciotte. «Non ci si batte mai troppo contro i mulini a vento». In alcuni passaggi Lévy apre finestre più intime, come quando parla del suo rapporto con il pericolo, lui che ha frequentato tante guerre. «Ci sono due scuole» osserva a proposito della morte. «Si può parlarne in continuazione, dialogare con lei sperando così di domarla. Oppure, al contrario, dimenticarsene, non prepararsi, lasciare le cose in sospeso e sperare che anche lei si dimentichi di voi. Io sono della seconda scuola». Affiora il desiderio di trasmettere qualcosa alle nuove generazioni. «Anche se non sono ancora riuscito a feticizzare i miei anni — dice — e se non credo nella saggezza acquisita e tantomeno nell’inesorabile invecchiamento, è tempo, per citare Rimbaud, di raccontare la storia delle mie follie». Lévy oltrepassa una linea rossa, lanciandosi in quella che definisce come «la prima incursione nella temibile arte dell’autobiografia». «È la prima volta che, come diceva Louis Aragon nel titolo di uno dei suoi libri, "mostro il mio gioco". Ed è l’espressione più sincera di ciò che, per mezzo secolo, mi ha fatto vivere, correre e talvolta prendere il rischio di morire».
Per inviare a Repubblica la propria opinione, telefonare: 06/49821, oppure cliccare sulla e-mail sottostante