'Giorni maledetti', di Ivan Bunin
Recensione di Diego Gabutti
Ivan Bunin, Giorni maledetti, Voland 2021, pp. 224, 18,00 euro.
«Cosa succederà?» chiede qualcuno in Giorni Maledetti d’Ivan Bunin, Nobel per la letteratura nel 1933, borghese reo confesso, una vita da profugo in Occidente, mai nessuna compiacenza letteraria per il terrore e per i terroristi. Be’, succederà «quel che deve succedere: hanno liberato i criminali dalle prigioni ed ecco che sono loro a governarci adesso. Gli antichi romani solevano marchiare i volti dei prigionieri con le parole “Cave furem” [attenti al ladro]. Ma queste facce non hanno bisogno d’alcun marchio, parlano da sole».
Mosca 1918, Odessa 1919. Anno secondo e terzo dell’horror bolscevico in Russia e dei suoi riflessi in Europa. Sette giorni per creare il mondo, dieci per sconvolgerlo (secondo la formula di John Reed, il giornalista newyorchese autore del falso reportage al quale Sergej Ėjzenštejn s’ispirò per il suo Ottobre) e poi un incubo durato settant’anni – Mao Zedong, Cuba, Pol Pot, le Brigate rosse, la Corea del nord, il Gulag – e alla fine di tutto: Vladimir Putin, Solženicyn che accoglie in casa l’ex colonnello del KGB e brinda con lui alla salute della Madre Russia, il polonio-2010 nel tè, mezza Cecenia rasa al suolo, gli agguati ai giornalisti sotto casa, il destino di Navalny e dei nuovi dissidenti. Di questa catastrofe sociale – la rivoluzione regressista da cui hanno avuto origine tutti gli orrori del Novecento – Bunin fu il primo testimone onesto e attendibile. Raccontò la rivoluzione senza tante sciocchezze sociologico-sentimentali e senza fare sconti al «popolo» e ai suoi leader, come s’usava e ancora si usa nei ranghi dell’intelligencija. Sarà un caso, ma prima che ci pensasse Voland, casa editrice benemerita, a nessuno nel paese dell’egemonia culturale era mai venuto neppure in mente di tradurre Giorni maledetti. Bene, adesso il libro c’è.
Giorni maledetti è simile a un film muto, ma senza didascalie o tentativi di spiegare la barzelletta: soltanto riprese cinematografiche in successione, qua il fotogramma gelato d’un episodio significativo, là uno zoom su un trafiletto di giornale. Questo, per esempio: «C’è stata una riunione “straordinaria” dell’Ispolkom [Comitato esecutivo del Soviet di Pietrogrado]. Fel’dman ha cominciato a dire le solite cose: “Compagni, la rivoluzione mondiale sta arrivando!” Qualcuno ha gridato in risposta: “Basta, hai stufato! Pane!” “Ah, ecco qui dunque – si è messo a strillare Fel’dman – Chi è stato?” Quello è balzato coraggiosamente in piedi: “Sono stato io!” – è stato subito arrestato. Quindi Fel’dman ha suggerito di “utilizzare i borghesi al posto dei cavalli per trasporto degli oggetti pesanti”. L’idea è stata accolta da un applauso scrosciante». Ogni tanto uno scatto fotografico: «Anjuta dice che ormai da due giorni non distribuiscono nemmeno più quell'orrendo pane di farina di piselli che ha causato coliche lancinanti e fatto urlare di dolore tutti quanti nel nostro cortile. E chi è lasciato senza? Il proletariato ,che fino all'altro ieri ci si impegnava a trastullare. Ma sui muri un nuovo appello: “Cittadini! Fate sport!” Assolutamente incredibile, ma è la pura verità. Perché lo sport? Da dove lo hanno tirato fuori queste menti diaboliche?» «Capita» – altro scatto, altra diapositiva – «che dal cancello di quella che un tempo era la pensione Krymskaja (dirimpetto alla Čeka) esca un distaccamento di soldati mentre alcune donne stanno attraversando il ponte: allora il drappello di punto in bianco si ferma - e tutti, ridendo, si mettono a pisciare rivolti in quella direzione. E che cosa dire dell’enorme manifesto che campeggia sulla facciata del palazzo della Čeka? In cima ad alcuni gradini è raffigurato un trono da cui sgorga copioso il sangue. Recita la scritta: I troni grondanti il sangue del popolo / Imporporeremo con quello dei nostri nemici». Infine, «lungo la via Deribasovskaja», appaiono «altri manifesti: due lavoratori intenti a girare una pressa. Sotto la pressa giace schiacciato un borghese, dalla bocca e dal sedere del quale fuoriescono come nastri di monete d’oro».
Scrittore asciutto, niente acuti retorici, Bunin è autore di romanzi e racconti che non concedono nulla al sentimentalismo, alla frase fatta, al facile effetto melodrammatico. Non dev’essere stato facile conservare calma, compostezza e lingua sobria anche viaggiando attraverso l’inferno leninista, dove «i borghesi» sono scannati per capriccio e il terrore parla nel gergo osceno dei volantini, dei comizi, degli schiamazzi demagogici. (È in quei giorni che si fissano una volta per sempre, nel linguaggio giornalistico e letterario delle sinistre radicali, espressioni tra il ritrito e l’abominevole come «leggere nel cuore... o l’uno – o l’altro: il terzo non è dato... trarre le debite conclusioni... a chi di dovere... destrezza di mano.... cuocere nel proprio brodo...» Oggi si dice anche «metterci la faccia… cercare la quadra… fare il punto… assolutamente sì»).
Giorni maledetti è un libro d’immagini, e tutte perfettamente a fuoco. Per questo, per il suo realismo, è stato ignorato così a lungo nel bel paese degli ex, dei vetero, dei neo e dei post. Ai negazionisti e banalizzatori della Shoah viene almeno contestato il diritto a diffondere menzogne. Ai negazionisti e banalizzatori del Gulag, del genocidio dei kulaki e del pogrom sociale bolscevico sono invece affidati ricchi cataloghi editoriali, direzioni giornalistiche, intere reti televisive. Quanto al pogrom, naturalmente, non fu soltanto sociale e classista, ma come racconta Bunin fu anche classicamente antisemita. Ultima diapositiva, ultimo ritaglio di giornale: «Pogrom a Borgoj Fontan, a commetterlo gli uomini dell’Armata Rossa odessita. Ovsjaniko-Kulikovskij e Kipen, lo scrittore, erano presenti. Hanno raccontato i particolari. Sono stati assassinati quattordici commissari e all’incirca 30 civili ebrei. Molte botteghe sono state devastate. Hanno fatto irruzione durante la notte, tirato giù dal letto e ammazzato chi capitava. La gente scappava verso la steppa, si gettava in mare, e quelli li inseguivano sparando. Una vera e propria caccia. Kipen l’ha scampata per puro caso – fortunatamente non aveva passato la notte a casa, ma nel sanatorio Belyj cvetok. All’alba si è presentato un drappello di soldati dell’Armata Rossa. “Ci sono giudei qui?” domandano al custode. “No, non ce n’è di giudei”. “Giura!” Quello ha giurato, e i soldati hanno proseguito».
Diego Gabutti