Riprendiamo da AVVENIRE - Agorà di oggi, 23/04/2021, a pag.7 con il titolo 'Il Medio Oriente è vicino, boom delle serie tv israeliane' l'analisi di Fiammetta Martegani.
Fiammetta Martegani
Fauda, Shtisel, Teheran. Israele chiama Italia. Sono soltanto i titoli di alcune delle serie televisive israeliane che negli ultimi anni, grazie a piattaforme come Netflix e Apple Tv, hanno conquistato il pubblico italiano mostrando le diverse sfaccettature di un Paese e di una realtà così complessa come il Paese israeliano.
Fauda (Netflix, 2015-2020), ormai alla sua terza stagione, ha cercato di raccontare la complessità del conflitto arabo-israeliano, attraverso le impervie missioni di un'unità speciale delle forze di difesa, i cui soldati sono addestrati per infiltrarsi tra i nemici nei Territori palestinesi e a Gaza. Il grande merito di quest'opera, oltre a uscire dai soliti stereotipi, è stato quello di aver trasformato l'archetipo della lotta tra Davide e Golia in quello di Davide contro Davide, con una rappresentazione decisamente empatica del nemico, a partire dalla scelta di far parlare i protagonisti in entrambe le lingue.
In Valley of Tears (Hbo, 2020) viene narrata la Guerra di Yom Kippur, consumata nel 1973 lungo il confine siriano. Oltre al violento e sofferente scontro tra i due schieramenti, viene esplorato anche uno dei conflitti maggiori interni a Israele: quello tra ebrei di origine ashkenazita e di origine sefardita. Si tratta di una profonda ferita del Paese, che mostra luci e ombre di una nazione così giovane e ancora alla ricerca della propria identità.
Un altro momento storico cruciale, che risale all'estate del 2014, viene descritto in Our Boys (Hbo, 2019), con l'assassinio di un ragazzo palestinese da parte di estremisti ultraortodossi, a seguito del rapimento e dell'uccisione di tre giovani ebrei, per mano di terroristi palestinesi. Partendo dall'episodio di cronaca (che innescò, a poche settimane di distanza, l'operazione militare "Margine di protezione") in quest'opera si cerca di indagare il punto di vista delle due parti, e come l'eterno sentimento di vendetta sia una delle principali ragioni che impedisce ai due popoli di avviare un dialogo.
L'impossibilità di trovare un terreno comune su cui costruire le basi per un Medio Oriente pacificato è uno dei temi principali anche in Teheran (Apple Tv, 2020), che racconta la vita di una giovane hacker, nata in Iran ma cresciuta in Israele, dove il Mossad le affida l'incarico di tornare in patria per manomettere una centrale nucleare iraniana. Durante la missione, però, le cose si complicano, portando a cambiare anche il punto di vista della protagonista, che si trova bloccata nella repubblica islamica con altre donne, come lei, dalla doppia identità: uno spaccato sulla complessità della cultura israeliana, ibrida per definizione, con una rappresentazione dell'eroina che supera il classico paradigma del soldato israeliano, maschio e nerboruto. Aldilà dei conflitti esterni, il conflitto intergenerazionale e il rapporto con la fede viene descritto in modo magistrale tramite le vicissitudini di una famiglia.
In Shtisel (Netflix, 2013-2021) Akiva, il figlio minore, per ben tre stagioni, tarda ad accasarsi, causando apprensione e malcontento all'interno della comunità religiosa a cui appartiene, per dedicarsi, piuttosto, alla sua vera passione: la pittura, altra attività accettata di malgrado tra gli ultraortodossi. Specialmente dal padre rabbino, con cui discute tra una sigaretta e l'altra da un balcone pericolante in una Gerusalemme al confine tra passato e futuro. Un mondo a distanza anni luce da chi in Israele non vive e che, grazie a queste serie tv, può conoscere e capire meglio, attraverso lo sguardo dei protagonisti che, dopo solo un episodio, ci si dimentica da dove vengono, che lingua parlano e per chi pregano, e ci si sente immediatamente parte della loro storia. Che è anche la storia di un intero Paese.
Per inviare a Avvenire la propria opinione, telefonare: 02/6780510, oppure cliccare sulla e-mail sottostante