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La Stampa Rassegna Stampa
20.10.2002 Se oggi ci fosse Rabin..
E' giusto rimpiangere Rabin come leader e come uomo ma oggi come si comporterebbe?

Testata: La Stampa
Data: 20 ottobre 2002
Pagina: 24
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Rabin, il mito della colomba»
Riportiamo un importante articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato su La Stampa domenica 20 ottobre. Mentre Israele si prepara all'anniversario dell'assassinio di Rabin, un'analisi corretta e approfondita della politica israeliana da Peres a Sharon. Nel sottotitolo è scritto: "Molti lo rimpiangono come fosse un "totem" della pace perduta: ma oggi che farebbe?"
Ed è questa la domanda che si pone la giornalista:

"NIENTE è più commovente, nel settimo anniversario dell'assassinio di destra il cui orrore è senza aggettivi che rapì al mondo Rabin, che rivedere su tutti i giornali, in tutti i programmi tv, il suo atteggiamento timido e scabro, riascoltare la sua voce lenta che di fronte al terrorismo palestinese (il primo attacco, 8 morti, dopo l'accordo di pace ebbe luogo a Afula solo 2 mesi dopo) ripete: «Seguiteremo a fare la pace come se non ci fosse il terrore e a combattere il terrore come se non ci fosse la pace». Dopo due anni di terrorismo catastrofico e della disperata reazione che ha riportato nelle città palestinesi i carri armati israeliani, Rabin è nell'epos nazionale il simbolo naturale della felicità perduta, il portatore della colomba di pace nata nel cuore del capo di stato maggiore della Guerra dei Sei Giorni che seppe stringere pure nella titubanza la mano ad Arafat, l'eroe della guerra d'Indipendenza che trasse dall'esperienza del sacrificio dei suoi amici la volontà di ripetere, dopo Sadat e Begin, «no more war»; ma la crisi verticale di una sinistra che ribolle sulle sue proprie ceneri perché la sua idea essenziale (pace per territori con un partner affidabile) è stata sradicata, fa di questo anniversario il triste festival dell'impossibilità della sinistra di cambiare quando cambia lo scenario. Tutti i Paesi Occidentali ne sanno qualcosa, ma in Israele il risentimento di chi ha avuto uno schiaffo dalla storia è enorme, l'impulso a individuare colpevoli immaginari è grande, la tentazione di creare dei totem consolatori povero Rabin, è abissale: nelle commemorazioni della figlia di Rabin, Daliah, e anche nei discorsi commemorativi alla Knesset, più che la figura del leader si è magnificato l'accordo di Oslo, la pietra miliare, l'amuleto della buona fortuna del cui smarrimento Israele ancora non vuole rendersi conto. Chi ha abbandonato Oslo, ha abbandonato Rabin, e anche i laburisti al governo non sono veri compagni: questa è la nozione basilare promanante dalla famiglia Rabin, ripetuto da Avraham Burg, il presidente della Knesset che ha ricordato l'ucciso, e da Yossi Sarid, il capo dell'opposizione, e in generale un po' da tutti gli intellettuali di sinistra che hanno sfilato alla radio e alla tv. Come se Oslo non si fosse abbandonata da sola, come se il terrorismo non avesse causato il rovesciamento della politica delle concessioni territoriali già molto avanzato, come se l'uso delle armi consegnate (un capisaldo di Oslo) a Arafat non fossero state usate contro Israele invece che contro il terrore. L'altra idea ripetuta pateticamente e che certo Rabin avrebbe deprecato, è che se lui fosse stato vivo, tutto sarebbe stato diverso. La via della continuità fu comunque sbarrata dai fatti: Shimon Peres, che certo sarebbe stato un fedele successore di Rabin, fu investito nella sua breve reggenza da un'ondata terroristica che ne determinò la sconfitta elettorale: Arafat non volle mantenere l'accordo, neppure col gemello ideale di Rabin. La sinistra qui rifugge da un pensiero pauroso e sgradevole quanto realistico: Israele è stato investito da una crisi di partnership, e con l'Intifada delle Moschee si è imbattuta in un fenomeno mondiale, che né Rabin né nessun altro avrebbe potuto risolvere. Il mondo intero si dibatte di fronte alla nuova dimensione del terrore, al dilemma che ne ricavano le democrazie strette fra necessità di difesa e diritti umani; il mondo intero non sa dove battere la testa per combattere il terrorismo catastrofico, la guerra che ci aspetta volenti o nolenti, la sua base popolare e religiosa immensa, sorretta dalla protezione e dal denaro di stati finanziatori; il vasto, inusitato terrorismo palestinese si è abbattuto su Israele come un'onda impazzita: è come se a Roma scoppiasse un autobus mentre a Torino esplode un supermarket mentre a Firenze salta per aria un ristorante e a Napoli una discoteca. Chi saprebbe risolvere questo problema se non tentando mosse di difesa che alle volte risultano goffe e anche tragiche per il comune sentire sui diritti umani? Rabin avrebbe saputo acquietare l'onda anomala? Chissà: ci sono motivi molto seri per rimpiangerlo come leader e come uomo senza fare di lui un amuleto contro la sfortuna che tocca a Israele e un po' a tutto il mondo occidentale. Ma la sinistra ha anche uomini e donne saggi e allarmati, come da noi, e il primo segno è sempre quello di prendere su di sé la crisi della loro parte: Peres, ha osato dire, fuori dal coro, che Rabin avrebbe difeso il Paese come l'ha sempre difeso da soldato; la storica Anita Shapira ha osato persino sostenere che Rabin avrebbe dovuto subito, fin dalle prime violazioni dell'accordo (ovvero fin dal primo uso delle armi che Rabin passò ad Arafat contro Israele invece che contro Hamas) denunciarne la rottura e reagire di conseguenza. «Tutti noi siamo circondati da sospetto e odio e non c'è nessuno a salvarci» ha detto Daliah disperata e accusatrice sulla tomba del padre. E' come se l'Israele più intellettuale e aristocratica, quella delle famiglie di sinistra come Rabin e Burg - quella della letteratura pacifista contemporanea in testa nelle classifiche e degli istituti di storia revisionista nelle università di Gerusalemme e di Beersheva - non avessero la forza di prendere in considerazione che Israele si è trovato a fronteggiare uno dei fenomeni più rilevanti del nostro tempo, più difficili da combattere: se guardiamo a ciò che ha fatto Peres, senza cercare di indovinare cosa avrebbe fatto Rabin, scorgiamo un ministro degli esteri in un governo di unità nazionale, teso a cercare modestamente tutte le vie possibili per la pace, a tornare per quello che può all'accordo di Oslo, sostenendo però la guerra di sopravvivenza del suo popolo. Il grande gruppo di italiani che sta per venire in Israele in visita di solidarietà «perché ha a cuore le sorti del popolo ebraico e la sopravvivenza del suo Stato democratico» conta intellettuali, politici, sindacalisti, scrittori molti di sinistra, certo a favore del processo di pace. Come Peres, pur desiderando l´accordo, non si nascondono la dura realtà."

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