Johann Chapoutot è un brillante storico francese 43enne, insegna all'Università Sorbonne Nouvelle - Paris III ed è autore di libri come La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti e Nazismo e antichità, in cui indaga le origini culturali del regime nazional-socialista, pubblicati in Italia con Einaudi. Ora, sempre Einaudi ha dato alle stampe Nazismo e management. Liberi di obbedire, dove sostiene la tesi che nel pensiero nazista erano presenti elementi applicati pure negli anni del dopoguerra nella gestione delle aziende. Ovviamente, nei contesti e con finalità diversi.
Partiamo da un classico, da Zygmunt Bauman che in "Modernità e Olocausto" risale alla radice razionalistica della modernità nazista. Lei ne porta esempi estremi. «Da storico lavoro sulle fonti. C'è la convinzione che la democrazia basti per consacrare la libertà. Nel sistema economico il contratto di lavoro presuppone l'obbedienza sono imbattuto negli scritti di Herbert Backe (generale delle SS, morto suicida nella prigione di Norimberga nel 1947), incaricato delle questioni dei territori occupati all'Est, dove, accanto agli elementi semantici, politici e culturali chiaramente nazisti - antisemitismo e razzismo - c'erano espressioni stranamente familiari presenti nel nostro universo e valorizzate nelle scuole di management. Concetti come "abilità di raggiungere gli obiettivi" e simili. Siamo tutti eredi della tradizione culturale europea. I nazisti l'hanno portata all'estremo. Volevano agire in fretta perché avevano un concetto del tempo che definirei "panico"».
La copertina (Einaudi ed.)
Che cosa vuole dire? «Erano convinti che il tempo giocasse contro la Germania. Che la Germania stesse scomparendo, politicamente ma, prima di tutto, biologicamente. L'intensità della violenza era correlata all'idea del tempo esaurito: decadenza e morte. Per evitare la Morte occorreva mobilitare tutte le forze».
Volevano raggiungere il futuro? Lo volevano anche i bolscevichi nell'Urss. «I nazisti non pensavano al futuro, a differenza di Stalin. Volevano uscire dalla Storia. La loro era un'escatologia di fine della storia, un grande impero all'Est, tanti figli, schiavi slavi e fine dell'ebraismo».
Lei scrive che il nazismo cercava di abolire lo Stato e contrapponeva la Vita alla Legge. «Il culto dello Stato, per quanto riguarda i regimi totalitari, esisteva in Italia e nell'Urss. I nazisti invece la percepivano come una creatura "straniera", del basso impero romano, ripresa e imposta ad altri dai francesi e dalla Chiesa cattolica. Gli ebrei erano per loro il popolo della Legge, perché inferiori. I francesi, a loro volta, erano "degenerati" e per questo avevano bisogno di uno Stato forte, di codice penale e civile. L'uomo tedesco, di razza pura, sarebbe stato invece in grado di autogovernarsi. Parlavano della "libertà tedesca". E siccome occorreva agire per arrivare prima del Tempo e lo Stato era troppo farraginoso a causa di formalismi e rigidità, bisognava snellire le procedure, creare agenzie e enti appositi per ogni compito».
Meno Stato, più pragmatismo. Sta dicendo una cosa inquietante per chi pensa che sia giusto criticare lo Stato liberale, a patto però che si è disposti a difenderlo da ogni tentazione di dittatura. L'analogia fra nazismo e liberalismo... «Certo che non sono la stessa cosa. C'era, dopo la guerra, la teodicea del mercato fra i liberali. Fra i nazisti c'era invece la teodicea della biologia. Cose diverse, ovvio. L'analogia sta, casomai, nella convinzione che lo Stato possa essere utile solo per aiutare a far morire ciò che deve morire».
Soffermiamoci sulle categorie che lei rintraccia sia nel passato nazista che nell'oggi. Per esempio la "gioia di lavorare" che lei lega alla "libertà di obbedire". Ma se io sono felice di lavorare non vuol dire che mi sono sottomesso al discorso dominante. «Lei è libero di trovare il modo di arrivare all'obiettivo prefissato, ma non ha la facoltà di scegliere l'obiettivo. La sua libertà sta nella scelta del mezzo più appropriato per realizzare il compito dato, non nella sua definizione. Il nazismo capì che non si poteva produrre molto con mezzi di costrizione perché "l'uomo germanico è un uomo libero". Ma, ripeto, libero in quanto tedesco. Questo non vale per gli altri: i polacchi, i lavoratori dell'Est, e viene totalmente negato agli ebrei».
Utopia positiva per i tedeschi. Nichilismo radicale per gli altri. Parliamo di Reinhard Höhn, alla cui biografia lei dedica la seconda parte del libro. Höhn, morto 96enne, nel 2000, Oberführer delle SS, giurista teorico dell'arte della gestione delle risorse umane. Dopo la guerra, fonda un istituto di management a Bad Harzberg, forma 600 mila persone fra cui moltissimi dirigenti d'azienda. Continuità o invece adattamento al nuovo? «Dal punto di vista della sua carriera personale è continuità. Alla base c'è una rete di aiuto reciproco fra i reduci delle SS nella Repubblica federale tedesca. Per quanto riguarda le idee, il discorso è più sfumato. Però Höhn ha capito bene una cosa: l'importanza di concetti come la libertà del produttore e il ruolo di un'ente che rimpiazza lo Stato. Si tratta di elementi che lui ha saputo trasportare con una certa abilità nel mondo nuovo. Era il mondo della guerra fredda. E, dato che il nemico era comunista, l'Occidente si definiva come il luogo della libertà contro la tirannide sovietica».
Nelle conclusioni lei cita l'anarchico Pierre-Joseph Proudhon, molto presente nel dibattito degli anni Ottanta. «C'è la convinzione che la democrazia basti per consacrare la libertà. Viviamo invece in un sistema economico in cui il contratto di lavoro presuppone l'obbedienza e l'impegno a favore di fini che non sono i nostri. Il pensiero di Proudhon offre riflessioni interessanti su modi di produzione alternativi presenti pure, oggi, nel dibattito ambientalista. Ma è un'altra storia».
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