Riprendiamo da REPUBBLICA - Robinson di oggi, 17/04/2021 a pag.11, con il titolo "Quel Singer dimenticato", la recensione di Susanna Nirenstein.
Susanna Nirenstein
La copertina (Adelphi ed.)
Ombre sullo Hudson uscì in originale, e dunque in yiddish, sul The Jewish Daily Forward tra il 1957 e il 1958, a puntate naturalmente, oltre 100, come tanti degli scritti di Isaac Bashevis Singer. La cosa strana fu che la traduzione in inglese e la pubblicazione del romanzo dovette aspettare il 1997, sei anni dopo la morte dello scrittore polacco immigrato in America nel 1935. Singer l'aveva lasciato da parte. Un peccato, perché il romanzo è straordinariamente complesso, avvincente, penetrante: secondo Richard Bernstein, che ne scrisse allora sul New York Times, potrebbe essere considerato il suo "capolavoro". Ed è vero.
I critici si affannarono subito a interrogarsi sul perché il premio Nobel non l'avesse voluto pubblicare in vita. Si disse che il libro era terribilmente anticomunista (parla degli orrori di Hitler e di quelli di Stalin mettendoli fianco a fianco) e che Isaac ormai non volesse alienarsi troppo il pubblico di sinistra; si suggerì anche che il modo feroce in cui Singer vi raffigurava i superstiti della Shoah, pieni di vanità intellettuale, di fanatismo ideologico, di appetiti sessuali, non fosse da lui ritenuto adatto ai lettori anglofoni; lo stesso Bernstein affermò che il sapore amaro che lasciava in bocca Ombre sullo Hudson non corrispondeva più alla fama che Isaac Singer si era andato costruendo dagli anni Sessanta in su, quella di un elfo, un giocoliere dall'accento curioso, di uno scrittore capace di ricreare una terra lontana, amata, perduta, con il suo specialissimo folklore ebraico, e tutti quei diavoli, quei folletti, un'immagine che mal si combina con il pessimismo e l'impulso etico che caratterizza il romanzo meritoriamente ritradotto da Adelphi, anche questa volta per la cura appassionata di Elisabetta Zevi. Ombre sullo Hudson, per quanto carico dell'usuale umorismo caustico di Singer, via via ci travolge con la sua tenebrosità insieme all'ampiezza, lo sguardo vivace e profondo sulla carrellata di protagonisti che animano la scena. Siamo nel 1947 e i personaggi sono quasi tutti presentati fin dalle prime pagine: in linea di massima benestanti, figlio nipoti di rabbini e studiosi polacchi, fuggiti dall'Europa nazista. Tra loro ne succederanno di tutti i colori. Ora siedono alla tavola di Boris Makaver, un ebreo osservante che, per quanto abbia perso la moglie, ha ricostruito una vita privilegiata nel West Side di Manhattan. A cena troviamo la bella figlia Anna, più o meno trentenne, il marito molto più anziano Stanislaw Luria - aggressivo e inconsolabile vedovo che vive nel lutto della Shoah -, il professor David Shrage, un matematico interessato di occultismo che vive a casa di una medium nella speranza di rivedere la consorte uccisa dai tedeschi, Solomon Margolin - ex compagno di studi talmudici del padrone di casa ormai divenuto un ateo convinto -, Herman Makaver, il nipote ribelle dell'ospite, un comunista sfegatato che presto verrà inghiottito dalla Russia staliniana, Zadok Halperin, filosofo mezzo matto, sua sorella Frieda Tamar, il cui marito, come gran parte delle famiglie dei presenti, è stato annientato nello sterminio.
Mancano alcuni, pochi, nomi; forse però, per la sua vitalità e stravaganza, dovremmo citare Yasha Kolik, eccentrico e avido attore, primo (e forse ultimo?) marito di Anna, bevitore, seduttore, uno che non sta mai zitto e le spara grosse. Manca il pezzo più importante, Hertz Grein, bell'uomo di 47 anni, polacco anche lui, erede di una stirpe di pii e saggi ebrei, ora broker finanziario, il jolly del racconto: seduce Anna alla cena e scappa via con lei quella sera stessa, facendole abbandonare il marito, il triste Luria, e cercando lui stesso di lasciare la fedele moglie Leah e soprattutto l'amante Esther con cui ha una passione irreprimibile. Insomma, un uomo e tre donne, come tanti dei protagonisti di Singer, che, nella sua vita in America si sposò una volta (in Polonia l'aveva già fatto) e si tenne tre compagne, più, con quell'aria da asceta che aveva, un'innumerevole schiera di amichette. Di inedito c'è soprattutto il fatto che i sensi di colpa di Grein, il senso di colpa di essere vivi dopo la Shoah potremmo dire, qui si moltiplicano di pagina in pagina, e per quanto di continuo il nostro Hertz sia riportato a riallacciare l'uno o l'altro dei vecchi rapporti, il fallimento, la sua mortificazione, la sua disperazione sono totali, così come la sua tentazione di tornare alle regole della religione, non per un riaccendersi della fede, ma perché solo in esse l'ebreo può trovare riparo dal caos tentacolare della modernità. Però non spaventatevi, il libro è bellissimo.
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