'I fratelli Oppermann', di Lion Feuchtwanger
Recensione di Diego Gabutti
Lion Feuchtwanger, I fratelli Oppermann, Skira 2014, pp. 384, 19,00 euro, ebook 10,99 euro
Con I fratelli Oppermann, pubblicato in Olanda nel 1933, l’anno dell’insediamento di Hitler al potere, Lion Feuchtwanger non scrisse soltanto un «libro profetico», come si dice in questi casi. Fece qualcosa di più e di meglio. Mostrò quanto sono infallibili le profezie di sventura in un mondo che pullula di demagoghi e non distingue la realtà dalla propaganda, un mondo in cui chi è furbo s’aspetta il peggio, e raramente s’inganna.
È il mondo di cui siamo prigionieri esattamente da un secolo, da quando la tecnica e la volontà di potenza, con la Grande guerra, si sono alleate allo scopo di cambiare il mondo, non importa a quale prezzo né chi lo paga. Da questo incubo non ci siamo ancora svegliati del tutto. Per questo la storia dei fratelli Oppermann (un medico, un industriale, un intellettuale che lavora a una biografia di Lessing, illuminista tedesco, autore di Nathan il saggio, dramma filosemita) che un orribile mattino si svegliano in una Germania diventata hitleriana ci fa correre per la schiena lo stesso brivido che corse in quegli anni per la schiena dei suoi primi lettori, anche italiani, tra cui il recensore della Rassegna mensile di Israel che lo storico Sergio Luzzatto citava in un articolo del Sole/24ore («la prosa di Feuchtwanger costringe a leggerlo, tutto, prima d’ogni altra attività, quando lo si ha cominciato»). In Italia il libro uscì solo nel 1946, a guerra finita. Tra gl’italiani che lo lessero in lingua originale o in francese ci fu Primo Levi: «Nel gennaio del 1941 la sorte dell’Europa e del mondo sembravano segnate [...]: avevamo letto I fratelli Oppermann di Feuchtwanger, importato nascostamente dalla Francia, in cui si descrivevano le “atrocità naziste”; ne avevamo creduto una metà, ma bastava». Nessuno lesse I fratelli Oppermann come si legge un romanzo, sospendendo l’incredulità. Quella dei Fratelli Oppermann non era una storia ma la Storia. Era il due più due quattro dell’età delle rivoluzioni globali e delle tempeste d’acciaio. Si leggeva credendoci (almeno «a metà, ma bastava»). Quando Hitler, da Führer d’un gruppuscolo rivoluzionario, diventò cancelliere tedesco e i nazisti cominciarono a bruciare libri, a varare le prime leggi razziali, a incoraggiare l’arbitrio degli antisemiti, ad assassinare legalmente i loro nemici, a carezzare fantasie di guerra, Feuchtwanger era all’estero per un ciclo di conferenze. Evitò di tornare in Germania, dove la sua casa fu devastata.
All’autore di Süss l'ebreo nei primi anni venti e più avanti della trilogia di Giuseppe Flavio (di cui qualche anno fa è uscita una scelta in edizione Guaraldi, La distruzione del tempio e le prime comunità cristiane) non restò che mettere in guardia il mondo con la cronaca della vita quotidiana della famiglia Oppermann sotto Hitler, quando «parlare di politica, dati i tempi, non si poteva purtroppo evitare». Non servì a niente: l’orrore fu consumato fino in fondo, una catastrofe dopo l’altra, come Feuchtwanger che andò incontro allo stesso destino degli Oppermann, alcuni «sparpagliati sui mari del mondo, ai quattro venti», altri «destinati a subire tutte le persecuzioni, a essere sterminati») aveva intuito e previsto con facile e infallibile profezia. Feuchtwanger scrisse la sua profezia come una cronaca, con qualche concessione qua e là all’umorismo da impiccati, come lo chiamava Hermann Hesse nel Lupo della steppa: «Conoscete la storia del vecchio banchiere Dessauer? Dessauer sente che il suo cognome suona troppo ebreo. Lo cambia. E spiega: d’ora in poi, non sono più Dessauer, ma Dessoir. Il signor Cohn lo incontra per strada. “Buongiorno signor Dessauer”, dice. “Mi scusi, signor Cohn, ma il mio nome ora è Dessoir”. “Domando scusa, signor Dessoir”. Due minuti dopo, lo chiama di nuovo Dessauer. “Dessoir, la prego!”, lo corregge questi con enfasi. “Mi perdoni!”, si scusa Cohn sollecito. I due lasciano la via principale e proseguono insieme. Fatti pochi passi, Cohn chiede: “Saprebbe dirmi, signor Dessoir, dov’è il Pissauer più vicino?”».
Diego Gabutti