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La Repubblica Rassegna Stampa
13.04.2021 35 anni dopo l'incontro di papa Giovanni Paolo II con rav Elio Toaff
Commento di Riccardo Di Segni

Testata: La Repubblica
Data: 13 aprile 2021
Pagina: 32
Autore: Riccardo Di Segni
Titolo: «Wojtyla, Toaff e l'abbraccio che fece la storia»
Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 13/04/2021, a pag. 32, il commento di Riccardo Di Segni dal titolo "Wojtyla, Toaff e l'abbraccio che fece la storia".

Bene fa il rabbino Riccardo Di Segni a ricordare la data del tardivo riconoscimento di Israele da parte vaticana nel 1993, 45 anni dopo la fondazione dello Stato.

Ecco l'articolo:

Riccardo Di Segni - Wikipedia
Riccardo Di Segni

Trent'anni fa lo storico abbraccio tra Papa Wojtyla e il Rabbino Toaff - La  Stampa
L'incontro di Giovanni Paolo II con il rabbino Elio Toaff


Il 13 aprile del 1986 papa Giovanni Paolo II fece la storica visita al Tempio Maggiore ebraico di Roma. La ricordiamo a 35 anni di distanza. Gli ebrei romani, per la loro vicinanza geografica, e la storia di convivenza bimillenaria, hanno un rapporto molto particolare con la Chiesa e soprattutto con i papi; ne hanno conosciuti di tutti i tipi e malgrado tutto ciò che ne hanno dovuto sopportare è sempre esistita comunque una sorta di relazione particolare. Il giorno in cui il polacco Karol Wojtyla fu eletto papa era il 16 ottobre del 1978 e per gli ebrei romani c’erano due segnali preoccupanti: l’origine da un mondo, come il cattolicesimo polacco, tradizionalmente imbevuto di forte antigiudaismo, e la circostanza del 16 ottobre, che è il giorno funestissimo in cui nel 1943 c’era stata la razzia nazista a Roma.

Molto presto arrivarono segnali rassicuranti sulla questione polacca; la biografia del nuovo papa andava controcorrente rispetto al suo ambiente. Wojtyla aveva conosciuto e apprezzato un ebraismo vitale, e l’aveva visto scomparire negli anni della Shoah. Anzi, arrivando a Roma si era stupito del fatto che gli ebrei locali non fossero riconoscibili per l’abbigliamento come i concittadini ebrei della sua giovinezza. Il clima in cui maturò la visita era ben diverso da quello di oggi; c’era stato il terrorismo, il papa stesso era scampato a un attentato, i rapporti tra la Chiesa cattolica e il mondo ebraico erano complessi. Dal punto di vista dottrinale le aperture segnate dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate del 1965 che "assolveva" gli ebrei dalla colpa di deicidio avevano avuto un seguito, con commissioni di esperti al lavoro, cambi nella predicazione e nella formazione dei sacerdoti. Dal punto di vista politico continuava la freddezza nei confronti dello Stato d’Israele, che sarebbe stato riconosciuto dalla Santa Sede soltanto nel 1993. Testimoni oculari hanno raccontato che durante un pranzo del papa con suoi stretti collaboratori, in cui si discuteva come rispondere in qualche modo alle accuse per le reticenze vaticane, qualcuno propose come gesto di apertura una visita del papa alla Sinagoga di Roma, come se fosse la rappresentanza del mondo ebraico e la porta dello Stato d’Israele. Ma questo perché, se gli ebrei romani hanno un rapporto particolare con il papato, lo stesso vale reciprocamente per il Vaticano, anche se non è dichiarato. L’idea piacque al papa, che di gesti clamorosi e simbolici era esperto, e le segreterie si misero al lavoro. Per il rabbino capo Elio Toaff, che ricevette discretamente la proposta, fu una sorpresa e una sfida; non era mai successo dai tempi del primo papa, Pietro. Ignorando completamente i suoi colleghi italiani e il rabbinato israeliano, che probabilmente gli avrebbero creato problemi, Toaff cercò e trovò una sponda autorevole nel rabbinato europeo, di cui era esponente. A questo punto i problemi divennero quelli organizzativi, diplomatici e mediatici. Furono i media i veri interlocutori dell’operazione e i trasmettitori del messaggio. Che era quello semplificato dell’abbraccio e della riconciliazione. Wojtyla sapeva bene quanto un’immagine, in quegli anni, valesse ben più della teoria e delle parole. Rispetto all’immagine clamorosa dei due rappresentanti religiosi vestiti di bianco e sorridenti, che si abbracciavano, le sottigliezze dottrinali, i documenti delle commissioni, le polemiche quasi quotidiane svanivano. Ma in ogni caso contarono anche le parole; è di quell’evento la famosa frase del papa che indicava gli ebrei come «fratelli maggiori». Espressione geniale che pare sia stata suggerita dal carismatico cardinale Etchegaray, che a prima vista incute amore e rispetto; ma anche sottigliezza teologica ambigua, perché nella Bibbia i fratelli maggiori, a cominciare da Caino, sono quelli cattivi e quelli che perdono la primogenitura. Il prof. Saban, allora presidente della Comunità, e il rabbino Toaff non dimenticarono nei loro interventi la storia, l’attualità e i problemi. Alla richiesta di riconoscimento dello Stato d’Israele, papa Wojtyla replicò in privato argutamente, citando l’Ecclesiaste: «per ogni cosa c’è tempo». Il tempo è passato con tante novità, ma certamente da quel 13 aprile i rapporti tra i due mondi sono radicalmente cambiati.

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