Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi, 10/04/2021, a pag. 32, il commento di Sharon Nizza dal titolo "I guardiani dell’imputato Eichmann".
Sharon Nizza
Eichmann a Gerusalemme durante il processo
"Ogni volta che vengo qui a vedere uno spettacolo, cerco la cella di vetro antiproiettile". Davanti a quello che oggi è il teatro Gerard Behar, Reuven Campagnano condivide le memorie indelebili dell’evento che più di ogni altro ha forgiato la percezione collettiva della Shoah non solo per il mondo intero, ma anche per la società israeliana. L’11 aprile 1961 si apriva a Gerusalemme il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann. Il 10 maggio, Reuven, 19 anni, con sua madre Hulda, si faceva strada tra la folla che cercava di accedere a uno dei 756 posti disponibili nella sala. Per loro c’era un ingresso preferenziale, quello riservato ai 112 testimoni viventi dell’orrore nazista. Hulda Cassuto Campagnano fu l’unica teste italiana al processo del secolo. Figlia di Umberto Cassuto, noto rabbino e storico costretto dalle leggi razziali ad abbandonare la cattedra alla Sapienza di Roma, non riuscì a raggiungere Gerusalemme nel 1939 insieme al padre per le limitazioni imposte dagli inglesi all’immigrazione ebraica nella Palestina mandataria. Al banco dei testi, Hulda ripercorrerà l’epopea che la vide affrontare la guerra con i sei bambini della famiglia, rimasta sola dopo la deportazione del marito Shaul, del fratello Nathan e della cognata Anna. Solo Anna fece ritorno da Auschwitz, per perdere la vita tre anni dopo in un attentato arabo a Gerusalemme. «C’era una tensione altissima nell’aula. Eichmann sembrava un burattino, non emanava nessuna espressione. A guardarlo mi si apriva una voragine», rievoca Reuven. «Ricordo la sensazione di sollievo terminata la testimonianza. Una catarsi». Il processo Eichmann è stato lo spartiacque nel rapporto tra lo Stato d’Israele, nato appena 13 anni prima, e i sopravvissuti della Shoah, un quarto della popolazione del Paese negli anni ’60. Una sorta di terapia d’urto collettiva, la definisce la storica Hanna Yablonka, che per prima ha avuto accesso agli archivi del processo, su cui si basa il suo saggio Lo Stato d’Israele contro Adolf Eichmann .
«In quel momento, la Shoah da un insieme di informazioni, è diventata conoscenza. Fino ad allora la storia veniva raccontata principalmente attraverso i documenti rinvenuti nel dopoguerra. Le vittime non erano state sentite, seimilioni era un numero generico », dice Yablonka. «Con il processo Eichmann si è iniziato a parlare in prima persona singolare: quando Martin Foldi dal banco dei testimoni racconta la separazione ad Auschwitz dalla figlia, che indossava un cappotto rosso, e di come la vide per l’ultima volta come un puntino rosso in lontananza che non riuscì a raggiungere (sarà poila scena iconica del film Schindler’s List ), il pubblico israeliano si trova di fronte all’aspetto esistenziale della Shoah, al suo impatto sulle vite degli individui». Fu un passaggio determinante nello sfatare il mito degli ebrei che andarono a morire «come pecore al macello», che negli anni della fondazione dello Stato contrapponeva l’ethos dell’ebreo pioniere, fondatore della patria, con quello diasporico, debole vittima imbelle. «Si è cominciato a capire che, nelle condizioni straordinarie e senza precedenti descritte, anche sopravvivere è stata una forma di eroismo», ricorda Reuven. Ma la svolta non è stata soltanto rispetto all’esposizione delle persecuzioni e delle atrocità. «La mamma ci aveva raccontato in parte la storia, teneva un diario personale per ognuno di noi bambini, dove e da chi era stato nascosto finché dopo la guerra non ci ha recuperati. Per me c’è stato un risvolto emotivo: mia madre ha fatto di tutto per farci crescere sereni, lontani dal trauma. Era la prima volta che ero esposto al suo dolore ». Un trauma tenuto dentro a forza ancheper ledrammatichecircostanze che, solo tre anni dopo, il Paese si trovava a vivere con la guerra del ’48 di fronte a cinque eserciti arabi schierati. «Il processo è stato un’opportunità unica per la rielaborazione del rapporto tra le due generazioni», dice Yablonka. Ricorda ogni dettaglio come fosse ieri, Gabriel Bach, 94 anni oggi, viceprocuratore per l’accusa durante il processo. LaprimavoltacheincontraEichmann aGerusalemme,dopoilrapimento del Mossad, aveva appena terminato di leggere l’autobiografia di Rudolf Hess, comandante del campo di Auschwitz. Hess descrive come capitava che in un giorno venissero uccisi anche mille bambini ebrei e che proprio Eichmann gli spiegava perché i bambini dovevano essereuccisi perprimi: «Qual è la logica nell’uccidere gli adulti se si lascia una generazione di vendicatori che può ripristinare questa razza?». Dieci minuti dopo, Eichmann era di fronte a lui. «Voleva consultarsi con me sulla nomina dell’avvocato ». Alla fine, la scelta ricadde su Robert Servatius, già difensore di nazisti al processo di Norimberga. La famiglia Eichmann non se lo potevapermettere efu Israele a pagarne il compenso. Eichmann era sorvegliato costantemente da un’unità della polizia istituita ad hoc. Decine di poliziotti si alternavano nei turni, disarmati e senza legami familiari con sopravvissuti «per evitare di rendere difficile il servizio o di mettere a rischio la vita del prigioniero », spiega lo storico Yossi Hemi, che ha in uscita un nuovo libro sul ruolo della polizia israeliana nel processo Eichmann. Tra le testimonianze, quella del sovrintendente capo Michael Goldman, dell’Unità 06 responsabile delle indagini. «Fu come vedere riaprirsi la porta del crematorio »: così ricorda il momento in cui sentì Eichmann parlare per la prima volta. Il primo giugno 1962 fu unodei pochi presenti all’unica pena di morte comminata dallo Stato ebraico. Dopo l’impiccagione, il corpo fu cremato. Goldmann, il prete e due poliziotti, salparono al largo delle acque territoriali israeliane per disperdere le ceneri in mare. «Istinti-vamente ho recitato il verso biblico: “Possano così perire tutti i tuoi nemici, Israele”. Qualcuno accanto a me ha risposto “Amen”».