La guerra strisciante tra Israele e Iran
Analisi di Antonio Donno
La guerra a bassa intensità che si va svolgendo tra israeliani e iraniani (e loro affiliati nel Medio Oriente) sta a indicare che la situazione nella regione si sta aggravando. Di questo è consapevole l’Amministrazione Biden, che sta avviando un lento processo di avvicinamento al regime iraniano, come gli incontri recenti di Vienna hanno dimostrato. Si tratta soltanto di premesse che favoriscono le posizioni attendiste di Teheran. Il regime iraniano non ha alcun interesse a dimostrare agli americani di voler a tutti i costi un negoziato conclusivo sulla questione del nucleare e intanto lascia campo libero alle sue milizie sparse in vari punti della regione di effettuare attacchi verso le navi o le postazioni terrestri israeliane, alle quali Gerusalemme risponde senza alcuna esitazione, mettendo in atto procedure belliche innovative nei confronti delle navi iraniane che trasportano il greggio. Non è nell’interesse degli ayatollah iraniani, tuttavia, alzare il livello dello scontro con gli israeliani. Se ciò avvenisse, Washington sarebbe costretta ad assumere una posizione chiara contro l’Iran e a favore di Israele, la qual cosa danneggerebbe le intenzioni di Teheran di portare gradualmente gli americani verso una sostanziale rinnovata accettazione del Joint Comprehensive Plan of Action (Jcpoa), firmato da Obama e da altri Paesi europei nel 2015. Per questo motivo, Teheran mantiene opportunamente l’attacco a Israele ad un livello che non suggerisce la sua volontà di portare lo scontro ad un’intensità tale da aprire un vero e proprio conflitto con Gerusalemme, ma che dimostra la propria attiva presenza politica e militare sullo scenario mediorientale.
Joe Biden
Il regime iraniano sta sfruttando abilmente la situazione presente: l’incertezza che deriva dai risultati delle elezioni israeliane e, nello stesso tempo, gli approcci prudenti dell’Amministrazione americana. L’Amministrazione Biden non può compiere passi negoziali che possano apparire al regime iraniano come una frettolosa disponibilità americana a chiudere la questione del nucleare iraniano, anche se non è dato sapere, in questo momento, a quale livello si sia attestato il dibattito interno tra le varie istanze presenti in seno al governo di Washington. Non è nell’interesse dell’Amministrazione americana prendere le distanze in maniera netta dagli esiti raggiunti da Trump nella questione iraniana. Le sanzioni imposte da Trump al regime di Teheran esercitano un tale peso politico sull’Amministrazione Biden che sarebbe controproducente per i democratici dare l’impressione a Teheran di voler porre subito sul terreno negoziale la riduzione o persino l’eliminazione di tali sanzioni. Anche a livello internazionale ciò apparirebbe un punto di debolezza molto grave da parte americana. Tutti i Paesi del Medio Oriente, e in particolare quelli degli Accordi di Abramo, attendono con la massima attenzione l’evoluzione dei fatti. Nel frattempo, la Cina stipula patti economici con l’Iran e apre un dialogo con gli attori del Golfo Persico.
La presenza cinese avrà conseguenze di grande importanza per gli equilibri economici e strategici della regione. È di vitale importanza che gli Stati Uniti mettano in atto una politica che non si limiti alle questioni del nucleare iraniano, ma che tenga in conto quella complessità di problematiche economiche e strategiche che possono subire fondamentali modificazioni a causa della sempre più pressante pervasività di Pechino nel Medio Oriente. È ormai un dato del passato ciò che scriveva Henry Kissinger nel 2011 in On China: “La Cina è rimasta uno spettatore agnostico di fronte alla diffusione della potenza americana per tutto il mondo musulmano e soprattutto agli obiettivi ambiziosi proclamati dall’Amministrazione Bush sulla trasformazione democratica [della regione]” (p. 493). A distanza di dieci anni, la situazione si è capovolta. Israele, dal canto suo, oltre che rispondere agli attacchi iraniani, deve risolvere la situazione politica interna. Gerusalemme segue le mosse dell’Amministrazione americana, ma solo un nuovo governo avrà la piena autorevolezza per confrontarsi con Washington sulle questioni sul tappeto.
Antonio Donno