La Cina e il Mediterraneo
Analisi di Antonio Donno
“La Cina è vicina”, gridavano i giovani sessantottini nei cortei di quegli anni. Nulla di più falso. Il comunismo di Mao Tse Tung era qualcosa di così estraneo alla sinistra europea, con l’eccezione della solita Francia, e alla cultura europea in generale, da rappresentare un fenomeno che poteva incantare soltanto qualche giornalista incline agli innamoramenti politici facili. Fu il caso di Maria Antonietta Macciocchi, della quale è noto il suo invaghimento per la Cina di Mao (Dalla Cina, dopo la rivoluzione culturale, Feltrinelli, 1971), che le costò l’espulsione dal Partito Comunista Italiano.
La copertina (Feltrinelli ed.)
Oggi, invece, la Cina ci è molto vicina, non in ragione dei successi del comunismo maoista in Occidente, ma della sua potenza economica che, partendo dalle riforme di Deng Xiao Ping sino ad oggi, ha intrecciato controllo statale a forme di capitalismo privato nelle industrie e proprietà privata nell’agricoltura. Lo sviluppo impressionante che ne è derivato permette alla Cina di esercitare una sempre più diffusa presenza nell’economia mondiale, condizionando, in particolare, quella occidentale. Il Medio Oriente è la regione che è nelle mire economiche di Pechino. Quando oggi si parla della possibilità di un riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti, sulla base dell’accordo del 2015 (Jpcoa), spesso si trascura un altro fatto di estrema importanza: l’accordo economico tra Cina e Iran che sta provvedendo a ridare fiato alla collassata economia di Teheran a causa delle pesanti sanzioni imposte dal governo Trump. La grande quantità di greggio esportata in Cina consente al regime iraniano di iniziare una ripresa economica che, tra l’altro, gli permetterebbe di tenere sotto controllo la diffusa protesta sociale per l’impoverimento di grandi masse di iraniani. C’è, però, un altro fattore che gioca a favore di Teheran. L’accordo economico con la Cina permette al regime non solo di rifiatare all’interno, ma soprattutto di condizionare i negoziati con gli Stati Uniti a proposito dello sviluppo dell’energia nucleare iraniana, così come della produzione dei missili balistici a testata nucleare, questione sinora tenuta sotto traccia.
Così, grazie alla Cina, l’Iran può uscire gradualmente dalla grave crisi economica, vendendo greggio a Pechino, e nello stesso tempo – è questo l’aspetto cruciale dei rapporti irano-americani – condizionando la ripresa dei negoziati con Washington sul problema del nucleare. Teheran, perciò, può esercitare una sorta di ricatto nei confronti dell’Amministrazione Biden, che desidera riprendere i contatti con l’Iran, che tergiversa astutamente grazie all’intervento cinese nella sua economia.
Questo impasse, tuttavia, ha ragioni profonde che risalgono ai tempi di Obama e poi dello stesso Trump. Con le due presidenze di Obama, gli Stati Uniti hanno intrapreso la via di un graduale ritiro dallo scenario internazionale, in particolare dal Medio Oriente, proprio negli anni in cui la Cina saliva al livello di potenza mondiale nel campo dell’economia e, di conseguenza, della politica internazionale. Lo stesso Trump ha seguito questa strada. Le conseguenze di questa politica sono che la Cina sta mettendo piede nel Medio Oriente, non solo con gli accordi con l’Iran, ma anche con i primi passi negoziali con i paesi del Golfo e con la Turchia. Un’immensa regione, che nel passato ha rappresentato un bastione della politica americana e un punto di forza nelle relazioni con i paesi arabi, rischia oggi di passare sotto il controllo della politica espansionistica di Pechino, a danno della presenza americana sia politica, sia militare, oltre che della stessa Nato. Anche i paesi del Maghreb sono nelle mire dell’espansionismo economico cinese. Il Mediterraneo, che dalla fine del secondo conflitto mondiale ha rappresentato un punto di forza dell’egemonia occidentale contro il pericolo del comunismo sovietico, dopo il crollo dell’Unione Sovietica è divenuto una sorta di zona franca, in cui oggi la Cina sta esercitando cautamente ma assai positivamente la sua influenza. Il ritiro americano da questa regione strategicamente fondamentale nel sistema politico internazionale sta consentendo una sostituzione egemonica che non può essere sottovalutata. Dalla Siria all’Iran, dalla Turchia alla Libia, sino al Golfo Persico, Pechino è sempre più presente nello scenario mediterraneo. Gli Stati Uniti devono rispondere con un nuovo impegno nella regione.
Antonio Donno