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Il Foglio Rassegna Stampa
08.10.2002 Un articolo utile
La guerra tra israeliani e palestinesi: una guerra esistenziale e non territoriale

Testata: Il Foglio
Data: 08 ottobre 2002
Pagina: 3
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «La Palestina non c’entra»
L'articolo di Emanuele Ottolenghi, pubblicato su Il Foglio l'8 ottobre, può essere un utile fonte di informazioni per lettere ed e-mail da inviare ai media.
Il conflitto tra Israele e i palestinesi è un conflitto esistenziale, non territoriale. I palestinesi hanno ripetutamente avanzato come precondizione per la pace il cosiddetto ‘diritto al ritorno’ dei profughi palestinesi—quattro milioni secondo i dati UNRWA—in Israele. Tale pretesa si fonda sulla memoria collettiva di espulsione dei rifugiati che ha un ruolo fondante nella formazione dell’identità nazionale palestinese.
I palestinesi accusano Israele di aver attuato nel 1948 l’equivalente di una politica di pulizia etnica. Per i palestinesi la rinuncia al ritorno dei profughi equivale al tradimento della loro identità. Tuttavia, la memoria collettiva si fonda su una lettura parziale e inesatta della storia: l’esodo dei profughi non fu causato, come sostengono i palestinesi, da politiche israeliane di espulsione. L’espulsione è un mito non suffragato dalla storia ma che permette ai leaders palestinesi di scrollarsi di ogni responsabilità storica nel fallimento della loro causa.
Per Israele – paese di circa sei milioni di abitanti – accogliere i profughi comporta un suicidio demografico: la maggioranza ebraica del paese verrebbe a mancare e Israele cesserebbe di esistere come stato ebraico. Quanto l’OLP non sarebbe riuscito a ottenere con la lotta armata – la distruzione di Israele – lo otterrebbe ora con il massiccio influsso di profughi che, forti del diritto di voto e di cittadinanza che i palestinesi demandano come corollario al ‘diritto al ritorno’, trasformerebbero Israele effettivamente in un secondo stato palestinese – accanto a quello che dovrebbe sorgere nei territori.
La propaganda palestinese segue dunque una doppia linea: da un lato presenta il conflitto al pubblico come uno scontro territoriale: l’Intifadah palestinese, esplosa due anni fa, appare come una lotta contro l’occupazione israeliana dei territori. L’aspetto territoriale del conflitto permette di raccogliere consensi a livello internazionale specialmente in Occidente, dove la conquista di territori è oggi associata a concetti negativi come il colonialismo e l’imperialismo. L’aspetto esistenziale viene presentato come una necessità umanitaria di fare giustizia per le vittime di una ‘pulizia etnica’.
Entrambe le posizioni si fondano sulla menzogna.
La guerra per la Palestina è stata romanticizzata come una lotta di liberazione contro un regime coloniale, idealizzata come rivoluzione sociale, venduta come movimento anti-imperialista. La realtà è meno romantica. Il problema dei profughi non fu causato da Israele, e l’Intifadah non è una rivolta popolare contro l’occupazione israeliana.
L’insistenza dei palestinesi a riscrivere la storia per presentare l’esperienza dei rifugiati come una pulizia etnica perpetrata da Israele dimostra che la storia è l’essenza del conflitto. Un’analisi di eventi recenti come del 1948 – quando avvenne l’esodo dei profughi palestinesi – s’impone per chiarire la natura del presente conflitto, e del riflesso che ha sull’intera regione.
Cominciamo dai fatti. Il conflitto in corso viene comunemente chiamato Intifadah al-Aqsa. Il nome Intifadah evoca l’Intifadah palestinese del periodo 1987-1993, ricordata in Italia come la rivolta delle pietre. Il significato è di una rivolta popolare. Al-Aqsa è il nome della moschea che si trova accanto al Duomo della Roccia costruito sulle rovine dell’antico Tempio sacro agli ebrei. Quale terzo luogo sacro dell’Islam, il riferimento alla moschea evoca forti sentimenti religiosi e crea l’impressione che il corrente conflitto sia una rivolta popolare diretta alla liberazione di un luogo sacro. I due elementi uniti si prestano a interpretazioni romantiche: lotta per la libertà religiosa e sollevazione popolare che si presta a interpretazioni marxiste di lotta di classe o post-colonialiste di liberazione nazionale.
La realtà contraddice il romanzo. L’elemento popolare dell’Intifadah si è esaurito dopo appena tre mesi di scontri. Ne sono prova le statistiche. Mentre nei primi tre mesi vi fu alta partecipazione di civili (oltre cento civili uccisi tra il 29 settembre e la fine di dicembre 2000), il carattere popolare della rivolta si è rapidamente esaurito. A distanza di due anni dall’inizio dell’Intifadah, 620 cittadini israeliani sono stati massacrati da terroristi palestinesi. Otto vittime israeliane su dieci sono civili. Per contro, meno della metà dei palestinesi uccisi in due anni di conflitto sono civili. La maggioranza sono combattenti.
I palestinesi hanno cercato di nascondere questo dato, insistendo sulle sofferenze dei civili palestinesi, spesso costretti a vivere sotto coprifuoco e a subire ogni tipo di umiliazioni ai posti di blocco israeliani. Storie di donne incinte che perdono il loro bimbo al posto di blocco, di malati che muoiono perchè impossibilitati a raggiungere l’ospedale accentuano l’immagine di scontro impari tra un brutale esercito di occupazione e una popolazione inerme ma determinata a ottenere l’indipendenza. Nulla di più lontano dalla verità.
La maggior parte dei civili israeliani uccisi sono morti lontano dai territori, massacrati in attentati terroristici palestinesi. Le misure di sicurezza imposte da Israele non mirano a perpetuare l’occupazione, bensì a prevenire il terrorismo e salvare vite innocenti.
In alcuni casi, terroristi hanno utilizzato ambulanze della Mezzaluna Rossa palestinese per entrare in Israele o trasportare esplosivi. È il caso per esempio di Wafa Idris, un’infermiera palestinese di 28 anni, fattasi esplodere in una strada del centro di Gerusalemme il 27 gennaio 2002, dopo esservi stata portata da un’ambulanza palestinese. In marzo, un altro terrorista palestinese veniva trovato, travestito da dottore, in un’ambulanza palestinese durante un controllo a un posto di blocco. Due giorni dopo, un’altro controllo di un’ambulanza palestinese permetteva di trovare una cintura esplosiva nascosta sotto la barella, sulla quale giaceva un bambino malato. Idris riuscì a eludere il controllo dei posti blocchi. Non così gli altri, come un attivista di Hamas di Kalkilya, che lavorava come autista di ambulanze. In servizio, l’attivista lavorava come corriere di Hamas in tutta la Cisgiordania sfruttando la relativa immunità dell’ambulanza. La Croce Rossa Internazionale – a cui la Mezzaluna Palestinese aderisce – in quell’occasione protestò vivamente per l’abuso del proprio simbolo e di un’ambulanza. I romantici sognatori della rivoluzione, per contro, tacciono.
I palestinesi hanno scelto il terrorismo come arma strategica per sconfiggere e piegare Israele. I terroristi sono combattenti in abiti civili. Si spiegano dunque le misure prese da Israele. I posti di blocco e il coprifuoco non sono imposti per opprimere i palestinesi ma per salvare vite innocenti. Pur non riuscendo sempre a impedire l’infiltrazione di terroristi, i posti di blocco hanno impedito numerosi attentati. All’inizio di settembre due macchine cariche di 600 chili di esplosivi ad alto potenziale—sufficienti per distruggere un grattacielo o un intero centro commerciale—sono state intercettate a un posto di blocco vicino a Pardes Hanna. Se fossero riusciti a eludere la sicurezza israeliana migliaia di israeliani sarebbero morti.
Chi dunque è responsabile per la sofferenza dei civili palestinesi? Chi è colpevole per la continuazione dei posti di blocco, delle perquisizioni, del coprifuoco? Gli israeliani che vogliono solo prevenire attacchi terroristici – attacchi che non dimostrano alcun riguardo per la vita umana e il diritto internazionale e che fanno cinicamente uso e abuso persino delle ambulanze pur di massacrare civili? O la leadership palestinese che ha preferito il terrorismo alla diplomazia?
Nessuno dubita che ci siano state circonstanze di abusi e ingiustizie. Israele, nè più nè meno di altre società, ha le sue mele marce. Ma la leadership palestinese ha deciso di usare il terrorismo deliberatamente per raggiungere precisi scopi politici, e ha sfruttato la parte più debole e indifesa della propria popolazione – donne e bambini – nel tentativo di conquistare le simpatie dell’opinione pubblica occidentale. La loro tattica merita le più dure condanne, non l’indulgenza di certi romantici.
I palestinesi giustificano il terrorismo come conseguenza dell’occupazione – così come spiegano l’Intifadah come resistenza popolare alla presenza israeliana nei territori. Se Israele si ritirasse da i territori – così dicono i loro apologeti – scoppierebbe la pace. Magari fosse vero.
Nel maggio 2000, Israele si ritirò unilateralmente dal Libano meridionale, senza un trattato di pace, un armistizio o una tregua. I palestinesi interpretarono il ritiro come un segno di debolezza israeliana ed erroneamente conclusero che il terrorismo avrebbe similmente cacciato Israele dai territori senza contropartita. Invece che porre fine a una guerra, il ritiro israeliano pose le premesse per un nuovo conflitto. Inoltre, non appena Israele ebbe concluso il ritiro, Hezbollah – la milizia proiraniana che oggi controlla il Sud del Libano – dichiarò immediatamente che la guerra sarebbe continuata.
La terribile verità è che tutte le sofferenze di questi ultimi due anni – da ambo le parti – si sarebbero potute evitare. I sondaggi dimostrano chiaramente che la grande maggioranza degli israeliani era disposta alle rinuncie territoriali che erano necessarie a soddisfare le aspirazioni palestinesi all’indipendenza. Ma i palestinesi volevano molto, molto di più.
Al summit di Camp David nel luglio 2000 Israele concesse praticamente tutta la Cisgiordania e l’intera striscia di Gaza ad Arafat. Israele era pronta a smantellare la maggior parte degli insediamenti e offrì di condividere Gerusalemme come capitale dei due stati, Israele e Palestina. Che oggi i palestinesi e i loro apologeti neghino questo fatto non lo rende di per sè meno vero.
Dopo Camp David la linea ufficiale palestinese ha cercato di presentare la propria posizione negoziale come ragionevole: i palestinesi avrebbero rinunciato al loro legittimo diritto a tutta la Palestina e Arafat si sarebbe ‘accontentato’ del rimanente 22% -- la Cisgiordania e Gaza. Gli israeliani avrebbero offerto molto di meno. Tuttavia, gli stessi leaders palestinesi che affermano come la risoluzione del conflitto sia puramente territoriale hanno anche detto chiaro e tondo che, attraverso il ritorno dei rifugiati, essi intendono minare le fondamenta demografiche dello stato ebraico e distruggerlo, siappur ‘pacificamente.’
Questa è l’essenza del conflitto. Non un progetto coloniale che si confronta con una indifesa popolazione indigena, ma uno scontro tra due legittimi movimenti nazionali che rivendicano lo stesso territorio. E soltanto uno – Israele – si dice pronto al compromesso in nome della pace. La maggioranza degli israeliani accetta il fatto che il loro sogno di controllare le terre bibliche di Israele – la Grande Israele – non si avvererà mai. I palestinesi invece devono ancora rinunciare al loro sogno di una Grande Palestina.
Questa è la più grande tragedia – e il tema ricorrente – della storia palestinese. Dopo aver perso quasi tutta la Palestina nel 1948, il mondo arabo non si affrettò a stabilire uno stato palestinese nella Cisgiordania e a Gaza, allora sotto occupazione giordana ed egiziana. Nessuno si preoccupò di offrire uno stato ai palestinesi, nè i palestinesi lo pretesero. Il 19 giugno 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il governo israeliano offrì di restituire il Sinai e le alture del Golan a Egitto e Siria, in cambio della pace. L’offerta fu respinta. Israele propose anche di creare un’entità autonoma nella Cisgiordania, che avrebbe potuto col tempo diventare uno stato palestinese indipendente. I notabili palestinesi rifiutarono, per timore che Arafat li avrebbe fatti uccidere come traditori.
Ci vollero altri dieci anni perchè il presidente egiziano Sadat compisse il suo storico viaggio a Gerusalemme. Il trattato di pace che ne scaturì includeva un piano di autonomia per i territori, seguito dopo cinque anni da negoziati sullo status finale. Arafat denunciò l’intero progetto come una resa umiliante ‘all’imperialismo americano e israeliano’ e auspicò pubblicamente l’assassinio di Sadat. Sadat fu assassinato due anni dopo.
Passarono ancora 14 anni dalla firma di Camp David agli accordi di Oslo del settembre 1993 – e molte vite israeliane e palestinesi inutilmente perdute – prima che Arafat firmasse un accordo simile.
A differenza di Sadat, e dopo di lui il re di Giordania Hussein, Arafat non ha mai compreso la realtà politica nè dimostrato le qualità da statista necessarie per por fine alle sofferenze dei palestinesi. Ma Arafat non è il primo leader a perdere occasioni, nè il problema è iniziato con Arafat. Fin dal 1937, quando l’Inghilterra propose per la prima volta di creare uno stato arabo indipendente nella maggior parte della Palestina, la leadership palestinese rifiutò la proposta e scelse la violenza. Questo comportamento si ripetè nel 1948, 1967 e di nuovo nel 2000, e ogni volta con lo stesso risultato: sofferenze per i palestinesi e un’altra occasione persa di porre fine al conflitto.
Invece di intraprendere la coraggiosa strada della pace, i palestinesi sono prigionieri del vittimismo che caratterizza la loro memoria collettiva. Alla base dei miti fondanti rimane l’accusa a Israele di avere volutamente e deliberatamente espulso i palestinesi nel 1948. Non esiste nulla che provi questa accusa: l’esodo dei rifugiati fu largamente un effetto collaterale di una guerra dove l’aristocrazia palestinese fu la prima a fuggire, lasciando dietro di sè una massa di contadini demoralizzati e senza guida. Le loro fortune intatte, la loro leadership incontestata, i notabili palestinesi tradirono la loro gente e il loro ruolo di guide in un momento così decisivo. Invece fecero rapidamente armi e bagagli e scapparono persino prima dell’inizio delle ostilità. A combattere furono lasciati i fellahin, privi di addestramento e organizzazione militare, e successivamente – dopo il 15 maggio 1948 – agli eserciti arabi, che erano tutto fuorchè uniti nei loro scopi e nella strategia adottata. Il resto è commento.
Nè il presente offre un nuovo corso. Tra i nomi degli attentatori suicidi non ne appare nessuno legato all’aristocrazia palestinese – Khalidi, Said o Nabulsi. I loro nomi si trovano piuttosto nei rotocalchi mondani, nei salotti radical chic, o nei registri degli studenti di Oxford, Harvard e Cambridge. Così come abbandonarono la Palestina in fretta e furia nel 1948, i leaders palestinesi hanno continuato a eludere le loro responsabilità storiche fino ad oggi.
Che i palestinesi rifuggano ogni responsabilità stupisce solo fino a un certo punto. Quello che colpisce invece è che l’intellettuale di sinistra – italiano o inglese poco importa – puntualmente discolpa i palestinesi e attribuisce la colpa dei loro fallimenti a qualcosa – o piuttosto qualcun altro. Per l’intellettuale si tratta sempre di un complotto – della CIA o del Mossad poco importa, sono in fondo interscambiabili! Lo stesso intellettuale accusa l’America di aver finanziato bin-Laden (falso), o Israele di aver creato Hamas (falso). E quando manca il complotto, sono l’imperialismo, il colonialismo, il capitalismo e da ultima la globalizzazione che causano i mali del mondo in generale, e quelli dei palestinesi in particolare. Ad ogni modo, in quanto vittime i palestinesi sono esonerati da qualsiasi responsabilità. Ed è questo processo di esonero dalle colpe che mostra il pernicioso paternalismo razzista dell’intellettuale terzomondista. Poichè presumere che ‘l’indigeno’ non abbia colpe significa negargli capacità di azione, libero arbitrio e la responsabilità che ne consegue. Ecco dunque, il ‘buon selvaggio’ palestinese: troppo folcloristico nella romanticizzazione rivoluzionaria fattagli dagli orfani del Che per attribuirgli colpe; nè abbastanza umano da aspettarsi che si prenda la responsabilità delle sue azioni.
Questo processo di rimozione delle responsabilità si estende a tutto il resto della regione. La questione palestinese – con buona pace di Agnoletto, Bertinotti e il piromane dei McDonald’s Jose Bove – non è il problema centrale del Medioriente. Più spesso è una scusa per non affrontare i veri problemi. Dittatori e despoti, autocrati e satrapi hanno sempre trovato conveniente usare Israele come capro espiatorio piuttosto che accettare la responsabilità dei problemi dei propri paesi. Quei problemi non possono più essere ignorati. Israele non c’entra in nessun caso, a meno che si voglia credere che una crescita demografica media del 2,8% annuo, economie fallite, la disoccupazione in crescita, il declino annuo del PIL pro capite in termini reali, la mancanza di infrastruttura e il deterioramento dei servizi pubblici – tutto ciò sia il prodotto del ‘solito complotto’ del Mossad.
Il malcontento nel mondo arabo deriva dall’ubiquità dell’ingiustizia, la mancanza di diritti umani, la povertà e le ineguaglianze sociali, l’assenza di mobilità sociale e la straordinaria longevità del nepotismo. Visto il fallimento in meno di un secolo di liberalismo, modernizzazione, socialismo e nazionalismo pan-arabo, non sorprende che bin-Laden offra una possibile speranza di riscossa. Ma persino bin-Laden, prima dell’11 settembre – prima cioè di comprendere la sottile psicologia dei nostri trinariciuti – fece soltanto raramente riferimento alla Palestina, e l’attacco alle torri gemelle fu comunque deciso e organizzato prima dell’inizio dell’Intifadah. Il suo scopo non è mai stato di liberare la Palestina, ma di muovere guerra all’Occidente e di riportare l’Islam al suo antico splendore.
I problemi della tormentata regione del Medioriente esisterebbero anche se Israele non fosse mai stato creato. Israele offre una facile scusa alle tirannie, e gli apologeti del mondo arabo che liquidano il problema delle responsabilità con un po’ di retorica anti-imperialista non sono altro che fantocci della repressione, portavoci delle satrapie che governano senza legittimità e senza pietà dal Golfo ai monti dell’Atlante. Ma fintantochè il mondo arabo rifiuta di accettare le proprie responsabilità, nessun salvatore verrà a redimerne le masse.
In quanto ai palestinesi, la fuga dalla responsabilità ha creato un mito, il mito dei rifugiati. Seppur contraddetto dalla storia, il mito è più forte della ragion di stato. E fino a quando un leader palestinese non troverà il coraggio di guardare la storia in faccia e accettarne il verdetto di responsabilità, il vittimismo, non la rivoluzione, non l’indipendenza, continueranno a caratterizzare la causa palestinese.
A Camp David Israele e gli Americani credettero che il conflitto fosse territoriale, e quindi risolvibile in pratica attraverso il compromesso e la spartizione territoriale già proposta nel 1937, 1948 e 1967. I palestinesi si impuntarono sulla vecchia, massimalista posizione del tutto o niente. Per loro, l’ostacolo alla pace non è l’occupazione israeliana dei territori – l’ostacolo rimane Israele. E questo rimane in ultima analisi il motivo per cui ancora oggi si muore in Palestina.

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