Ernesto Buonaiuti, un prete contro la Chiesa
Commento di Diego Gabutti
Ernesto Buonaiuti, Pellegrino di Roma, Aragno 2021, pp. 720, 35,00 euro.
Giordano Bruno Guerri, Eretico e profeta. Ernesto Buonaiuti, un prete contro la chiesa, Mondadori, Milano 2001, pp. 332, lire 34.000
Protagonista d’un vecchio libro (meritevole di ristampa) di Giordano Bruno Guerri, ma soprattutto autore in proprio di un’autobiografia appena ristampata da Aragno, Don Ernesto Buonaiuti fu uno dei dodici professori universitari che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà e sudditanza al regime fascista. Tutti gli altri giurarono, compresi i futuri padri della patria, campioni (a Mascellone morto) di tutte le resistenze, che si autoproclamarono antifascisti a guerra finita, morto e sepolto il fascismo, quando dei dodici che non avevano piegato la schiena si perse opportunamente ogni memoria. Ricordare chi non aveva giurato né baciato la pantofola significava infatti ricordare anche loro, i professori buoni per tutte le stagioni, che dopo aver elevato lodi al regime e scritto DUCE a tutte maiuscole, s’accingevano a rendere lo stesso servizio a Togliatti e Stalìn. Buonaiuti, per la verità, era fuori dell’università già da un pezzo: il Vaticano aveva voluto l’art. 5 del Concordato tra Stato e chiesa, quello che vietava agli ecclesiastici «d’avere impiego o ufficio pubblico senza il nihil obstat del vescovo», proprio per impedire a lui Buonaiuti, sacerdote e titolare della cattedra di storia del cristianesimo a Roma, di diffondere tra gli studenti il suo vangelo modernista, antipapista e riformatore.
Tra il Vaticano e il sacerdote ribelle la guerra infuriava da tempo. Mussolini, per ingraziarsi la chiesa e la classe dirigente cattolica, pagò pegno provvedendo ad allontanare l’eretico dall’insegnamento attivo quando il Concordato era ancora nel mondo della luna (anche all’Uomo della Provvidenza toccava leccare ogni tanto uno stivale o due: cominciò col Papa, poi passò all’indemoniato di Berlino). Fin dall’epoca del seminario, che aveva frequentato insieme al giovane Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, Buonaiuti militava nelle fila del «modernismo» per metà scuola storica, per metà nouvelle théologie. A cavallo tra otto e novecento il «modernismo» fu a tutti gli effetti la bestia nera del Sant’Uffizio e di Civiltà cattolica, la rivista ufficiale dei gesuiti: era un tentativo di passare al pettine della critica storica l’avventura plurimillenaria del cristianesimo, anche a costo di lasciare qualche cadavere lungo il percorso, compreso quello del fondatore, di cui i modernisti (magari senza ammetterlo apertamente) negavano in sostanza la natura divina, come certi eretici dei primi secoli. Movimento internazionale, che aveva i suoi guru nel francese Alfred Loisy e nel tedesco Aldolf von Harnack, agli occhi delle gerarchie e dei gesuiti il modernismo appariva, neanche a torto, come la summa di tutte le eresie. Non era il primo tentativo di tradurre la mitologia cristiana in termini di realtà storica: già l’illuminismo, un secolo prima, aveva lavorato senza sosta a questo progetto. Ma l’illuminismo era il nemico, un corpo estraneo alla chiesa, deciso a ècraser l’infâme, mentre il «modernismo» era la serpe covata in seno: nasceva all’interno della stessa chiesa e mirava a sabotare il primato del papa, a recuperare «il cristianesimo comunitario delle origini», a rinnovare in senso democratico (quando non addirittura socialista) la teoria e la pratica della chiesa, dunque sostanzialmente a rivoltarla da cima a fondo (all’epoca i gesuiti avversavano il progetto demagogico che oggi invece, Bergoglio imperando, promuovono).
Specialmente in Italia, dove l’eresia modernista era uscita dalle università e dalle accademie per infiltrare i seminari, le parrocchie, i gruppuscoli cattolici sparsi per la penisola, il modernismo appariva agguerrito e pericoloso. Buonaiuti, tra tutti i leader del movimento, era il più energico e quello che aveva più seguito tra gli studenti (e inoltre si credeva un profeta di rango biblico, chiamato a riformare il cristianesimo come Lutero ai tempi suoi). Era dunque il nemico numero uno e per questo, qualche anno prima d’essere scacciato dall’università, era stato colpito da una scomunica vitando, la più immaginifica e brutale, «che proibiva a ogni credente d’accostarglisi, per qualsiasi motivo». Scomunicato ma indomabile, Buonaiuti continuava a portare la tonaca: un altro codicillo ad personam del Concordato, il paragrafo «i» dell’art. 29, stabilì che la magistratura doveva colpire con pene severe chiunque perseverasse nell’uso indebito dell’abito talare quando la chiesa glielo avesse vietato. Perseguitato dalla chiesa e dallo stato, che tramavano insieme la sua rovina e quella della nazione, Buonaiuti attraversò gli anni trenta muovendosi tra le ombre e stentando a campare. Non c’era pubblico e presto non ci fu neanche più carta per le sue riviste di critica neotestamentaria. Per guadagnarsi la pagnotta collaborava sotto pseudonimo a giornali di secondo piano. Nei primi anni di guerra scrisse anche una serie d’articoli pro hitleriani per arruffianarsi il regime (non fu una bella cosa, e questa macchia rimane). Dopo la guerra, nell’Italia liberata, dove la Dc degasperiana vantava la propria vocazione liberaldemocratica, l’astio del Vaticano nei suoi confronti non diminuì, ma se possibile anzi s’accrebbe. Alcide De Gasperi, questo famoso campione di libertà, rifiutò che a un ex allievo di Buonaiuti, il leader comunista Ambrogio Donini, venisse affidato l’incarico di sottosegretario agli esteri. Quanto all’art. 5 del Concordato, restò in vigore solo per lui: De Gasperi (sempre lui, il grande statista, lo stesso che qualche anno più tardi avrebbe mandato come niente in galera Giovannino Guareschi) minacciò addirittura una crisi di governo se all’eretico fosse stata restituita la cattedra.
Buonaiuti morì nel 1946. Lasciò molti libri, pochi dei quali sono stati ristampati, e una bella autobiografia, Pellegrino di Roma, rimasta fuori catalogo per decenni e finalmente ristampata, pochi mesi fa, dall’editore sabaudo Aragno. Più tardi il modernismo, cioè la causa a cui Buonaiuti aveva dedicato la vita, uscì a sorpresa dalle catacombe per impollinare la teologia del Concilio Vaticano II. Qualche anno prima che Guerri gli dedicasse una biografia, Giulio Andreotti ricordò brevemente Buonaiuti in un suo libro occasionale, dove ne parlava come d’un uomo che subì molti torti. Vero, ma non è tutto qui. Non fu soltanto Buonaiuti a patire sotto il giogo vaticano ma l’Italia intera. Abbiamo patito e continuiamo a patire per opera d’uomini come Andreotti e come De Gasperi, e come i loro discepoli e semblables nelle Italie che si sono succedute negli ultimi trent’anni. Siamo vittime della loro ostilità alla libertà d’opinione e di pensiero e del loro papismo intollerante e forsennato (populismo pentastellare e progressismo postcomunista non ne sono la negazione ma il sequel e il ribadimento). Guerri, da parte sua, ha raccontato la storia d’Ernesto Buonaiuti con voce insieme sobria e appassionata. Non ne risulta un piagnucolo pietistico, in stile «visti da vicino», à la Andreotti, ma un racconto morale, sonoro come uno schiaffo.
Diego Gabutti