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Linkiesta Rassegna Stampa
07.03.2021 Che cosa significa l'incontro di Papa Bergoglio con l'ayatollah Al Sistani
Analisi di Carlo Panella

Testata: Linkiesta
Data: 07 marzo 2021
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella
Titolo: «L’incontro con Sistani. Le pericolose conseguenze indesiderate del viaggio del Papa in Iraq»
Che cosa significa l'incontro di Papa Bergoglio con l'ayatollah Al Sistani
Analisi di Carlo Panella

El papa Francisco y el ayatolá Al-Sistani piden fraternidad entre las  religiones
Al Sistani con Papa Bergoglio

Il viaggio di Papa Francesco in Iraq è caratterizzato, non per la prima volta, da un lettura superficiale ed errata del mondo islamico: riflette un irenismo astratto caratteristico di questo pontificato. Non è agevole differenziarsi dal coro di approvazione mediatica che sta accompagnando questa visita pastorale. Ma è bene farlo sulla base di fatti e dati concreti, non astratti, almeno per aprire una riflessione su temi desueti, ma di importanza capitale. Il viaggio del Papa è da considerare inopportuno non tanto perché è in assoluto il più pericoloso immaginabile per la sua incolumità. Un problema che non è suo personale, come lui intende, ma dell’umanità intera. A garantire la sua protezione si è mosso anche il modernissimo sistema di protezione delle basi degli Stati Uniti e un imponente sforzo delle forze di sicurezza irachene. Piuttosto il viaggio è inopportuno perché l’attenzione mediatica planetaria può essere incentivo forte, fortissimo, per la miriade di milizie sciite di ispirazione iraniana, così come per le milizie dell’Isis, per mettere a segno azioni e stragi settari. Magari non dirette contro il Pontefice, ma contro gli avversari interni: siano queste le truppe dei cristiani americani, i gruppi sciiti o i gruppi sunniti rivali. Basta guardare al recente passato per capire come la situazione in Iraq sia completamente fuori controllo: seicento manifestanti uccisi dalle milizie sciite filo iraniane o dalle forze di sicurezza durante le manifestazioni anti governative del 2019-2020; più recentemente ci sono state 32 vittime nell’attentato delle milizie dell’Isis, il 21 gennaio scorso nel centro di Baghdad. Il 2 febbraio la milizia sciita filo iraniana ha colpito una base militare americana nei pressi di Erbil (tappa della visita di Papa Francesco) facendo due morti e il 3 marzo 2021 tiri di mortaio, sempre di una milizia sciita filo iraniana sono stati lanciati sulla base militare di Din al Assad: un americano ucciso. Un quadro di instabilità in un contesto nel quale la visita di Papa Francesco può essere recepita da feroci milizie, sia sciite che sunnite, come una provocazione, al di là delle ottime intenzioni del Pontefice. Il problema di fondo è l’irenismo che contraddistingue il rapporto tra Papa Francesco e l’Islam e che in questa visita irachena appare esasperato. Per irenismo intendiamo esattamente la definizione data dalla Treccani: «Pacifismo, spirito di conciliazione, aspirazione ideale alla fratellanza universale». L’irenismo papale si evidenzia nella sua visita a Ur, nel suo riferimento ad Abramo, riconosciuto riferimento delle tre religioni. Il tutto, condensato nel Documento sulla Fraternità Umana che Papa Francesco ha siglato nel febbraio del 2019 con il grande Imam di Al Azhar (sunnita). Forti pressioni sono state fatte dalla diplomazia vaticana sul Grande ayatollah Ali al Sistani, perché nel corso del suo incontro con Papa Francesco apponga la sua firma a questo documento. Pressioni andate a vuoto, a quel che si dice. Il fatto è che in Iraq le tensioni religiose, più volte deflagrate in una sanguinosa guerra civile, non solo non sono risolvibili, ma neanche lontanamente affrontabili con l’approccio irenistico della fraternità. Un terreno di fuga nella pura retorica declamatoria e questa è una grande responsabilità di Papa Francesco, anche nel suo rapporto con i sunniti. Il riferimento alla fraternità non elude infatti solo le questioni dottrinarie, che sono ovviamente inconciliabili, ma piuttosto ignora il tema fondamentale dei diritti umani più basilari, col suo abbraccio volontaristico e astratto. Non si occupa di un tema tanto drammatico quanto dirimente: l’Islam di Abu Tayeb e di al Azhar (il cui peso nel mondo islamico è incredibilmente sopravvalutato in Vaticano, ed è limitato all’Egitto e al Sudan) rifiuta radicalmente la libertà di fede e di pensiero. L’apostasia (peccato giudicato più grave dell’omicidio) è un punto fermo e irrinunciabile di questo Islam che nega al musulmano la possibilità di abbandonare la fede islamica, tanto che in tutti i paesi islamici, in osservanza alla sharia, essa è punita per legge. E in alcuni Stati (non in Iraq) addirittura con la morte. Da questa vera e propria ossessione per l’apostasia, che ovviamente considera un grave reato il proselitismo cristiano (ovunque duramente represso per legge) deriva la persecuzione dei cristiani con cifre spaventose: solo nel 2020 nel mondo sono stati uccisi 4.761 cristiani uccisi. Una media di 13 al giorno. Un fenomeno agghiacciante, sempre eluso da Papa Francesco o affrontato con retorico irenismo. Fonti autorevoli della Chiesa sostengono che lo scopo di questo viaggio non sia solo quello di favorire la difesa dei cristiani in Iraq, ma anche la pacificazione tra sciiti e sunniti. Ma questa sarebbe possibile solo eliminando dal terreno la presenza delle milizie sciite filo iraniane. Eliminando cioè la volontà esplicita – rivendicata – degli ayatollah iraniani di egemonizzare militarmente l’Iraq. Il progetto di cui era campione Ghassem Suleimani, quella specie di Bonaparte sciita che con i suoi 10mila Pasdaran l’ha concretizzato sul terreno, manu militari, al costo di svariati miliardi di dollari per Teheran. E per questo motivo è stato ucciso dagli americani proprio a Baghdad il 3 gennaio del 2020. Indicative di questa missione espansiva iraniana sono le parole pronunciate nel 2015 da Ali Younesi, consigliere politico del presidente “riformista” iraniano Rohani: «L’Iran è ridiventato quell’impero che era un tempo, come indicava tutta la sua storia e ora Baghdad è il centro della nostra civiltà, cultura e identità, come lo era nel passato. Mi riferisco all’Impero iraniano Sassanide che ha conquistato l’Iraq. La capitale dell’Impero iraniano era Baghdad. In tutta l’area del Medio Oriente è l’Iran che protegge tutte le nazionalità, perché le consideriamo parte del nostro Iran che combatte l’estremismo islamico, il takfirismo, l’ateismo, i neo ottomani, i wahabiti, l’Occidente e il sionismo». Dunque, l’Iraq viene vista come “provincia” iraniana e Baghdad come capitale ideale del dominio degli ayatollah su tutte le nazionalità, sunniti inclusi. Di sicuro, di questo egemonismo iraniano armato e combattente è ben cosciente il Grande Ayatollah Ali al Sistani, che non a caso nei mesi scorsi ha ordinato alle milizie sciite che fanno a lui riferimento religioso di staccarsi e differenziarsi da quelle filo iraniane con le quali avevano combattuto l’Isis, su suo appello. Il messaggio inviato da Al Sistani a Teheran è solo l’ultimo episodio di una pluridecennale rottura radicale, sul piano dottrinale, con gli ayatollah di Teheran e Qom. Per Al Sistani e gli ayatollah di Najaf, che insieme costituiscono l’autorità religiosa indipendente della Marja, i poteri di attualizzare, rendere concreta e vissuta la fede nella storia umana, nell’attesa messianica del ritorno del dodicesimo Imam, devono considerarsi diffusi nella Umma cioè nella comunità dei fedeli. Da qui la sua visione di una democrazia islamica dal basso, che molto ha contenuto sinora le pressioni violente espresse da una società irachena travagliata. Per Khomeini, invece, nella attesa del dodicesimo Imam, i suoi poteri si concentrano non nel popolo, ma nel solo Giureconsulto, in quella Velayat e Faqih che è alla base della autocrazia religiosa dittatoriale che è l’essenza del regime iraniano. Dunque, un omaggio del Papa a Ali al Sistani, non è affatto gradito agli ayatollah di Teheran e Qom, una parte dei quali, peraltro, tentarono di ucciderlo nel 2005 tramite quella sorta di frá Diavolo sciita che è Moqtada Sadr (che si è poi riciclato). È opportuno che il Pontefice entri così pesantemente nella spaccatura drammatica che divide il mondo sciita – che vede Al Sistani paladino non solo di una forte polemica dottrinale con gli ayatollah di Teheran e Qom – ma anche e soprattutto come difensore indispensabile della indipendenza dell’Iraq contro la invadenza militare delle milizie sciite filo iraniane? I fatti lo chiariranno.

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Carlo Panella
Giornalista, scrittore, autore de “Il libro nero del Califfato”


info@linkiesta.it

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