Ancora sugli Accordi di Abramo
Analisi di Antonio Donno
La firma degli Accordi Abramo
Gli Accordi di Abramo rappresentano il momento finale della lotta del mondo arabo contro l’Occidente, compreso lo stesso Israele. Questa lotta è stata condotta per buona parte del secondo dopoguerra sotto l’influenza diretta del comunismo sovietico, almeno fino a quando l’Unione Sovietica fu in vita. Con la sua morte e quella del comunismo – finito “nella spazzatura della storia”, come disse Ronald Reagan –, l’odio arabo verso Israele non ebbe più la giustificazione politica che Mosca gli aveva assicurato, ma persistette comunque sotto forma di lotta per la decolonizzazione della Palestina dalla presenza di Israele e per la fondazione di uno Stato palestinese al posto dell’“entità sionista”. È quanto afferma Shmuel Trigano in un saggio pubblicato in questo mese dal Begin-Sadat Center for Strategic Studies, The Abraham Accords: Contrasting Reflections, che è utile commentare.
In queste prime argomentazioni di Trigano occorre inserire, tuttavia, un aspetto storico importante: mentre gli arabi intendevano cancellare Israele perché ritenuto nemico dell’Islam, l’Unione Sovietica sosteneva le ragioni arabe per contrastare la presenza americana nel Medio Oriente: era un fattore che rientrava nella logica della guerra fredda. Comunque, si trattava di ragioni diverse ma tendenti allo stesso fine: la distruzione di Israele. Il crollo dell’Unione Sovietica privò il mondo arabo di un sostegno indispensabile per la sua lotta contro il nemico sionista; restò in piedi l’argomento della fondazione di uno Stato palestinese al posto di Israele come obiettivo del mondo arabo. Ma il mondo arabo voleva veramente che nascesse uno Stato palestinese sul territorio liberato dall’“infezione sionista”? O gli Stati arabi puntavano a spartirsi quel territorio? Con il passare degli anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il problema palestinese divenne un fardello sempre più pesante per gli Stati arabi. Fu evidente che il nazionalismo palestinese si stava dimostrando come qualcosa di estraneo, anzi dannoso, agli interessi degli arabi. Ma questi ultimi non ebbero mai il coraggio di farla finita con questo fardello.
Ciò sino agli Accordi di Abramo. Secondo Trigano, questi accordi contengono un’intrinseca debolezza perché poggiano sul compromesso tra Israele e Stati arabi, le cui fondamenta politiche sono deboli, nonostante la loro ricchezza economica. Qualsiasi mutamento traumatico del potere politico di quei Paesi potrebbe cancellare in un sol colpo quegli accordi e riportare il mondo arabo sunnita nelle vecchie posizioni di lotta a oltranza contro Israele per la sua eliminazione dallo scenario mediorientale. Tuttavia, benché l’ipotesi di Trigano non sia trascurabile, occorre tener conto di alcuni precisi fattori presenti allo stato attuale. In primo luogo, i paesi arabi sunniti, compresa l’Arabia Saudita, godono di una stabilità politica da molti anni a questa parte, dovuta al loro ruolo economico e politico, un ruolo che assicura gli interessi dei più diversi settori dell’economia globale. In secondo luogo, gli Accordi di Abramo, se ulteriormente implementati, potrebbero costituire un’area politica di contrasto nei confronti della crisi siriana e delle potenze che vi si sono insediate: Turchia, Russia, Iran. A proposito di quest’ultimo, occorre dire, come terzo punto, che il mondo sunnita vede nelle ambizioni del mondo sciita iraniano un pericolo mortale per la propria sopravvivenza. Questi tre fattori, strettamente correlati, portano a ritenere che gli Accordi di Abramo siano un punto finalmente positivo nella regione mediorientale, dopo decenni di lotte interne. Ma tutto questo dipende dalle decisioni politiche degli Stati Uniti. L’Amministrazione Biden ha un ruolo cruciale nel far fruttare questi accordi nei prossimi anni. È una grande responsabilità. Le difficili relazioni con l’Iran, la pressione dei palestinesi, ma soprattutto le fazioni interne al governo americano porranno dei problemi decisivi per il futuro del Medio Oriente. Spetterà alla parte moderata dell’Amministrazione non sprecare i risultati raggiunti da Trump nella sua gestione della politica mediorientale, dopo gli anni ambigui dei due mandati di Barack Obama.
Antonio Donno