Cronache dal Paradiso dei Lavoratori
Commento di Diego Gabutti
Da Lenin di Hélène Carrère d’Encausse (Longanesi ed.):
Il 17 settembre 1922 Lenin chiese un resoconto a Unschlicht, vice di Dzeržinskij: «Mandatemi le carte dove è scritto chi è stato esiliato, chi è in prigione, a chi è stata risparmiata la deportazione (e perché)». Lenin ritornò sulla questione il 13 dicembre, giorno in cui ebbe il primo attacco cerebrale, in una lettera a Stalin, ma destinata al Comitato centrale, nella quale si indignava che lo storico menscevico N.A. Rožkov non fosse ancora stato deportato, ed esigeva che questo avvenisse d’urgenza. L’irritazione manifestata da Lenin a proposito del caso Rožkov, quando soggetti ben più importanti lo preoccupavano, derivava piuttosto da un’ossessione che da un progetto politico coerente. Ma questo accanimento nei confronti di un’élite che sospettava non essere pienamente sottomessa ai bolscevichi era conforme alla sua concezione generale della libertà d’opinione. L’espulsione degli intellettuali provocò la vivace reazione di Gor’kij che si trovava allora in Germania e che gli scrisse per comunicargli la sua indignazione. Il 15 settembre 1922 Lenin gli rispose così: «Le forze intellettuali degli operai e dei contadini aumentano e si rinforzano nella lotta contro la borghesia e i suoi complici, gli intellettuali, i lacchè della borghesia che si credono il cervello della nazione e che in realtà non ne sono il cervello ma la merda».
La copertina
Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij nacque a Vilna, nel 1877, da «una famiglia di piccoli lavoratori polacchi», come scrisse nella sua autobiografia ufficiale. Strano a dirsi, prima di diventare un poliziotto, fu un socialista. Come gli altri capi bolscevichi, anche lui era entrato nella cospirazione da studente liceale collegandosi ai circoli illegali del partito socialdemocratico lituano, poi anche di quello polacco, che nel 1897 lo spedì a Kovno, una città industriale della Lituania occidentale, dove apprese le arti nere della propaganda e dell’organizzazione clandestina. Arrestato nel 1898, morse il freno in Siberia fino al 1901, quando riuscì a fuggire. Col nome d’arte d’«Astronomo», poi di «Franek», ricostruì l’organizzazione del partito a Varsavia che, nei tre anni precedenti, era stata decimata dagli arresti. Guidò la fusione dei partiti polacco e lituano, poi del nuovo partito col partito russo, sempre braccato dalla polizia zarista che, di tanto in tanto, riusciva ad arrestarlo, ma senza poterlo mai trattenere a lungo: «Astronomo» era un artista delle evasioni. Subì l’ultimo arresto nel 1916, ma stavolta fu la rivoluzione, la più grande di tutte le evasioni, a liberarlo. Aderì al bolscevismo solo nel 1917. Ma più che altro aderì alla Čeka, con un prodigioso salto della quaglia, facendosi da ladro ideologico guardia metafisica di regime.
Feliks Ėdmundovič Dzeržinskij
«Fin dal primo momento», scrive Victor Serge, «la Čeka diventò uno Stato nello Stato, coperta dal segreto di guerra e da procedure misteriose. Il partito si sforzava di mettere alla sua testa uomini incorruttibili, come l’ex forzato Dzeržinskij, idealista probo, implacabile e cavalleresco, dal profilo emaciato d’inquisitore, fronte alta, naso ossuto, barbetta ispida, un volto tutto stanchezza e durezza. Ma il partito aveva pochi uomini di quella tempra e molte Čeka; queste selezionavano il loro personale in virtù dell’inclinazione psicologica. Col rapido influsso della deformazione professionale, le Čeka formavano inevitabilmente dei depravati, inclini a vedere la cospirazione in ogni cosa e a vivere essi stessi nel seno d’una cospirzione permanente. Dzeržinskij stesso», continua Serge con involontario umorismo, «considerava le Čeka “mezze marcie” e non vedeva altra soluzione che fucilare i peggiori čekisti e abolire appena possibile la pena di morte». (Era la classica ricetta čekista, tuttora in auge nei circoli giacobini: spiccare dal collo le teste di chi tifa per la ghigliottina). E ancora: «C’erano, in tutte le prigioni, quartieri destinati ai čekisti, giudici, agenti diversi, informatori, giustizieri... I giustizieri, che impiegavano la rivoltella Nagan, finivano sempre più spesso per essere giustiziati a loro volta. Si mettevano a bere, davano segni di squilibrio, d’un tratto sparavano a qualcuno». Dzerzhinsky, nel 1920, riuscì a far approvare un decreto che aboliva la pena di morte nel paese, fatta eccezione per le zone d’operazioni militari. Era il 17 gennaio e, nelle prigioni, centinaia di sospetti, che fino a quel momento erano vissuti nel terrore, brindarono alla prossima liberazione. Ma nella notte tra il 18 e il 19, un attimo prima che il decreto diventasse esecutivo, le Čeka di Mosca e Pietrogrado «liquidarono semplicemente i loro depositi: i sospetti, portati via di notte, a carrettate, vennero fucilati a mucchi». Duecento a Pietrogrado, trecento a Mosca. Un anno dopo, a Kronštadt , dove i marinai anarchici (e bolscevichi) si sollevarono contro il Soviet supremo in nome dell’utopia anarco-comunista, avvenne anche di peggio: quelli che non riuscirono a fuggire in Finlandia o che non rimasero uccisi nell’assalto alla fortezza, finirono davanti a Dzeržinskij che – ostile com’era alla pena di morte – «presiedette o lasciò compiersi un lungo, interminabile massacro». Nikolaj Stepanovič Gumilëv, un giovane poeta che per un po’ era stato sposato con Anna Achmatova, era tra i condannati. Qualcuno si recò da Dzeržinskij e gli disse che non si poteva fucilare uno dei due o tre più grandi poeti russi. Dzeržinskij rispose con severità: «Possiamo fare eccezione per un poeta e fucilare gli altri?» Ormai non pensava più ad abolire la pena di morte. Morì nel 1926, quando lo stalinismo non era ancora nemmeno una parola, ma giusto un sospetto nell’aria, «abbattuto su un divano da una crisi cardiaca all’uscita d’una seduta tumultuosa del comitato centrale». Sobrio e moderato, diciamo così, «Astronomo» ragionava ancora di morti a decine, di morti a centinaia; i suoi successori avrebbero ragionato a centinaia di migliaia, a milioni. * * * Il 19 maggio 1922 Lenin indirizzò a Dzeržinskij una lettera nella quale chiedeva che il GPU (questo il nome della Čeka a partire dal 1922) redigesse una lista di nomi di intellettuali (scrittori e professori) sospettati di simpatie controrivoluzionarie, per espellerli dalla Russia. Dato che Dzeržinskij si mostrava poco sollecito nell’esecuzione dell’ordine, Lenin ritornò alla carica nel luglio del 1922. Fu a Stalin che si rivolse allora per chiedere le ragioni del ritardo dell’operazione. Citò nomi di menscevichi, di socialrivoluzionari, di scrittori, precisando: «Arrestatene alcune centinaia, e senza la minima spiegazione buttateli fuori!»
Diego Gabutti