Nazisti impuniti e 'sazi di giorni' Commento di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 01 marzo 2021 Pagina: 19 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «Nazisti impuniti e 'sazi di giorni'»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 01/03/2021, a pag.19, con il titolo "Nazisti impuniti e 'sazi di giorni' " il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
Wilhelm Karl Stark, Alfred Stork
Sono morti come il biblico Giobbe, soddisfatti dalla vita e «sazi di giorni». Alfredo Stork e Wilhelm Karl Stark se ne sono andati rispettivamente a novantasette e cento anni senza aver mai scontato un solo giorno di carcere pur avendo ammesso le proprie responsabilità. Hanno massacrato centinaia di militari e civili italiani, a Cefalonia e sull'Appennino tosco emiliano. «Per ordine urgente del Fuhrer» è stato sempre il loro alibi. Erano gli ultimi due criminali nazisti giudicati colpevoli sopravvissuti alla guerra. Sessanta ergastoli stanno nell'«armadio della vergogna» di quel tempo che sembra così lontano e invece non lo è affatto, tanto che davvero ci vuole il passato prossimo per raccontarlo, e solo due condanne rese effettive dalle, chiamiamole così, «circostanze»: comodità, coscienza tremendamente lavabile, una certa dose di «civile» complicità hanno permesso a tanti criminali nazisti di vivere normalmente per decenni. E di morire «sazi di giorni», come nel caso di quei due. Difficile, se non impossibile, trovare un perché alle loro storie, così come a quelle di tutti i criminali nazisti tornati indisturbati a una vita normale, dopo la guerra. C'è qualcosa di imperscrutabile nello squilibrio terribile di questo contrappasso in cui la colpa resta sospesa in un vuoto muto e incomprensibile. Oltre quel vuoto, oltre il silenzio delle vittime e l'indifferenza del resto del mondo, grida quella che è la parola ebraica per dire «giustizia», che abbraccia una vasta gamma di significati, ma soprattutto di valori umani traditi da queste storie: tzedaqah vuol dire infatti congruità del giudizio ma anche condivisione del bene. Perché la giustizia, cioè la corrispondenza fra merito e retribuzione, colpa e punizione, è alla base di ogni convivenza. È sintomo e segno di un bene che non è trascendentale, ma regola — anzi, dovrebbe regolare —ogni società, piccola o grande che sia. Nelle storie di questi due loschi figuri, schermate dalle solita litania — «erano ordini superiori, non potevo oppormi» — c'è tutta l'incongruità dell'ingiustizia. Tutta l'evidenza di quanto l'ingiustizia dovrebbe essere fuori posto nel mondo e invece non lo è. Non è questione di vendetta, beninteso: la protratta impunità di Stark e Stork non ha nulla a che vedere con una mancata occasione di ritorsione. È, in fondo, proprio il contrario: una terribile occasione mancata di mettere un poco di giustizia nel mondo. C'è davvero da domandarsi come e perché sia potuto succedere tutto questo. Dopo l'evidenza delle colpe, dopo la condanna. Dopo, soprattutto, l'evidenza che «erano ordini superiori, non potevo oppormi» non tiene, perché c'è e deve esserci sempre spazio per la coscienza, per l'umanità. E così è stato tante volte, durante quegli anni. L'ingiustizia di questa impunità e di queste due pacifiche e appagate morti ci dice, ancor oggi, che quella storia non è affatto chiusa. Che nel processo del tigqun olam, «riparazione del mondo» cui secondo l'ebraismo siamo tutti chiamati a collaborare perché questo è il vero senso della vita, c'è ancora tanto, decisamente troppo cammino da fare.
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