'L'estate di Aviha', di Gila Almagor Recensione di Cristina Battocletti
Testata: Il Sole 24 Ore Data: 28 febbraio 2021 Pagina: 13 Autore: Cristina Battocletti Titolo: «L'Anna Magnani d'Israele»
Riprendiamo dal SOLE24ORE/Domenica di oggi, 28/02/2021 a pag.13, con il titolo "L'Anna Magnani d'Israele " la recensione di Cristina Battocletti.
Gila Almagor
La copertina (Acquario ed.)
Gila Almagor aveva quarantotto anni quando si calò nei panni di sua madre nel film L'estate di Aviha (1988), tratto dall'omonimo bestseller a firma della stessa attrice israeliana. Quella che viene considerata l'Anna Magnani d'Israele ha dovuto aspettare la giusta distanza per recitare forse la parte più difficile della sua carriera costellata di successi, a partire dal suo esordio folgorante a diciassette anni con la La famiglia Antrobus di Thornton Wilder a teatro, fino a Munich per la regia di Steven Spielberg nel 2005. Ha dovuto rafforzare la sua impalcatura di donna e consolidare la sua identità artistica, piena di riconoscimenti in patria (per dieci volte ha vinto il Kinor David, il Donatello israeliano), e mettere nero su bianco Hakayitz shel Aviya, L'estate di Aviha, storia della sua infanzia e della malattia mentale della madre. Era il 1985 e il libro ebbe un successo immediato, fu adottato nelle scuole e trasposto in pellicola per la regia di Eli Cohen tre anni dopo. Il film però non restituisce il senso di sottrazione percepita tra le pagine del libro, oggi disponibile nella versione italiana per Acquario. Un volumetto snello che si legge in un sorso, come tutte le pubblicazioni di questa neonata e piccola casa editrice di alto artigianato. Nella pellicola sembra quasi che il regista si sia trovato in difficoltà a maneggiare una materia incandescente e si sia tenuto sul bordo della narrazione per non scottarsi. Avrebbe fatto bene Cohen a prendersi qualche libertà in più, perché la regia non è all'altezza delle notevoli interpretazioni delle due protagoniste, grazie a cui vinsero a Berlino l'Orso d'argento nel 1989. Kaipo Choen, Gila da piccola (anche se nel film il suo nome è Aviha, letteralmente Figlia di...), è massiccia nella sua magrezza e nell'imporre la sua presenza necessaria. Sa essere indomita, ostinata, passionale e sensibile quanto la stessa Gila doveva essere stata a quell'età. Il lavoro di Almagor è ancora più monumentale: pesca nella memoria personale e riesce a restituire senza retorica la figura materna nei cambi repentini d'umore, negli inneschi delle crisi isteriche e insieme la capacità di essere lucida e farsi leonessa, quando la figlia è in pericolo. Il film divenne emblematico per l'effetto di "terapia di gruppo" a beneficio della generazione dei sopravvissuti all'Olocausto, che, una volta arrivati nella Terra promessa, sentirono sulle proprie spalle un clima di sospetto, quando non addirittura la derisione da parte dei sabra, gli ebrei nati in Israele. Un atteggiamento crudele, esplicitato anche nel bel libro I bambini di Moshe (Einaudi, 2018), di Sergio Luzzatto, che ricorda l'espressione sabon, saponette, con cui venivano apostrofati i sopravvissuti. Il libro, L'estate di Aviha, ha una prosa comprensibile e piana, al servizio di un argomento combustibile, come può esserlo quello di una bambina costretta a passare gran parte del tempo in un villaggio-scuola insieme ai figli di immigrati e superstiti della Shoah. Almagor esplicita il fantasma dell'Olocausto attraverso il nomignolo Partizunke con cui veniva dileggiata la madre, nata in Polonia e poi emigrata in Israele, alludendo a un suo impegno nelle file della Resistenza. Su questa circostanza Almagor è tornata scrivendo nel1992 un secondo libro autobiografico, Etz Ha-Domim Talus, di cui nel 1995 Cohen realizzò un'ulteriore trasposizione cinematografica. Almagor chiarisce dettagli importanti, che rendono ancora più feroce la sua esperienza, circostanziati nell'edizione italiana nelle pagine finali a cura di Paola M. Rubini, anche traduttrice. Questo permette di non distrarre il lettore dall'urgenza e dalla verità della narrazione, dal rapporto di sostegno e di amore reciproco che si estrinseca tra le righe, senza essere formulato razionalmente dall'autrice. In ogni frase, ben soppesata, si sente la necessità di liberazione e insieme di pietà per la madre da parte di una ragazzina già mutilata dalla perdita del padre, un poliziotto di origini tedesche rimasto ucciso in Israele poco prima della nascita della figlia. L'estate di Aviha si inserisce nel filone letterario tracciato dai figli dei sopravvissuti, che ragiona sulle conseguenze de relato della persecuzione nazista. Forse l'esempio più delicato e dolente di questo tipo di riflessione rimane Lezioni di tenebra (Guanda, 1997) di Helena Janeczek, che non a caso ha confermato la sua abilità di narratrice vincendo poi lo Strega. Da poco, è uscita in Israele l'autobiografia di Galia Oz, secondogenita dello scrittore Amos, Qualcosa mascherato da amore, in cui denuncia le violenze psicologiche del padre, a sua volta colpito dal suicidio della madre, su cui ha scritto Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli, 2002). Gila Almagor, pseudonimo di Gila Alexandrowitz, ha convertito la sua profonda sofferenza in arte e in beneficenza attiva con una sua fondazione volta ad aiutare i bambini con malattie terminali. Continuare a recitare è il suo antidoto contro la morte e il male, imparato sin da bambina, come si intuisce già dalle prime pagine di questo intenso libro.
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