Gila Almagor, la 'Sophia Loren' israeliana Commento di Fiammetta Martegani
Testata: Avvenire Data: 26 febbraio 2021 Pagina: 5 Autore: Fiammetta Martegani Titolo: «Gila Almagor, la 'Sophia Loren' israeliana»
Riprendiamo da AVVENIRE Agorà di oggi, 26/02/2021, a pag.5 con il titolo "Gila Almagor, la 'Sophia Loren' israeliana" l'analisi di Fiammetta Martegani.
Fiammetta Martegani
Gila Almagor
« Annche se il mio italiano non è un gran che, vorrei provare a leggere la prima pagina» propone, sorridendo un po' intimidita, Gila Almagor quando le viene consegnata la copia del suo capolavoro L'estate di Aviha, tradotto nella nostra lingua. Si è conquistata una fama internazionale la stella del cinema e del teatro, quella di "Sophia Loren israeliana". Una lunga carnera con alle spalle settant'anni tra palcoscenico e grande schermo, con oltre una cinquantina di film, tra i quali anche Life according to Agfa, di Asaf Dayan, figlio del celeberrimo Generale Moshe Dayan. Ma la sua vera opera d'arte, sta nella Almagor scrittrice e un libro tradotto in più di venti lingue. Un caso letterario internazionale, diventato «il bestseller» in Israele e addirittura inserito a pieno titolo nei programmi scolastici come testo "didattico" di narrativa. Un "fenomeno" anche quello della Gilmor scrittrice di successo che sembra quasi il prodotto del caso. Lei cosa ne pensa? Non avrei mai pensato di poter scrivere e, soprattutto, di pubblicare un libro. L'estate di Aviha è cominciato come un processo catartico - racconta mentre sfoglia le pagine dell'edizione italiana-. In Israele venne pubblicato per la prima volta nel 1985, e il successo immediato la portò a trarne un monologo teatrale con cui ha poi girato i teatri di tutto il mondo, fino a produrre, in collaborazione con il celebre regista israeliano Eli Cohen, il film omonimo, vincitore dell'Orso d'argento al Festival di Berlino nel 1989. Da dove nasce l'esigenza di scrivere questa storia? Faccio parte della "seconda generazione" (facendo riferimento ai figli dei sopravvissuti alla Shoah).
La copertina (Acquario ed.)
Con molti di loro sono cresciuta nelle case di accoglienza per orfani che negli anni Cinquanta, in Israele, erano moltissime. Ma a differenza dei miei compagni di infanzia io, almeno, una madre ce l'avevo, e per questo mi sono sempre sentita molto fortunata, anche se era malata mentalmente, a causa dei traumi subiti in Polonia. Pur non avendola al mio fianco, la sentivo sempre vicina e in quel contesto, correndo con i miei compagni tra i campi di gladioli, ho riscoperto la vita. Il mio processo di guarigione è cominciato proprio tra i fiori. - esclama, indicando il suo terrazzo fiorito - . Alla fine sono riuscita a sbocciare anch'io, grazie alla mia passione per il teatro. Com'è cominciato questo "processo di guarigione" attraverso il teatro? Sono arrivata a Tel Aviv in autobus, partendo dal piccolo villaggio di Petah Tikva, e dalla stazione centrale sono andata dritta all'Habima (il Teatro Nazionale). Non me ne sono andata fino a quando non mi hanno fatto un'audizione. Avevo solo 15 anni. Allora nessuno sapeva la storia di mia madre, non perché mi vergognassi a raccontarla, ma perché volevo proteggerla. Col tempo, la carriera mi ha dato sicurezza, e la forza per riconciliarmi con il mio passato, fino a spingermi a trascrivere le mie memorie in una storia al limite tra l'autobiografia e la fiction. Avevo ormai più di quarant'anni quando ho finalmente trovato il coraggio di farlo. E stata una necessità: ho scritto per dieci giorni, senza fermarmi, su un quaderno per gli appunti che avevo trovato tra i cassetti della scrivania di mia figlia. La scelta di cambiare il proprio cognome fa sempre parte di questo percorso? Assolutamente sì. Per fare i conti col mio passato avevo bisogno di dare un taglio netto con i traumi della nostra generazione, e il mio cognome ebraico, Alexandrowitz, mi ricordava anche la morte di mio padre, ucciso da un cecchino arabo ad Haifa quando mia madre era incinta di me. Quando sono nata, l'ostetrica aveva proposto a mia madre di chiamarmi Aviha, in memoria di mio padre (aviha in ebraico significa «il padre di lei», come la protagonista del romanzo). Invece mia madre decise di chiamarmi Gila che significa «gioia», e io ho scelto di chiamarmi Almagor, «senza paura», perché attraverso la mia carriera artistica ho ricominciato a vivere, senza paura. È la prima volta che il suo libro, già tradotto in oltre 20 lingue, viene pubblicato in italiano. Quale è il suo rapporto con l'Italia? Ho sempre avuto un legame speciale con il vostro Paese - racconta sorridendo mentre mostra con orgoglio le foto di Anna Magnani, appese alle pareti della sua casa di Tel Aviv - La Magnani è stata la mia musa a cui mi sono sempre ispirata nel mio lavoro. Un'altra figura fondamentale è stato Gilberto Tofano, regista italiano eccezionale, ma anche un grande amico. Lo ricorderò sempre con affetto per aver descritto in modo unico Israele durante la Guerra dei Sei Giorni, nel meraviglioso film The Siege (presentato al Festival di Cannes del 1969) di cui sono stata anche protagonista. Vedere il mio libro pubblicato in italiano è per me un grande onore e un omaggio a un Paese che amo così tanto.
Per inviare a Avvenire la propria opinione, telefonare: 02/6780510, oppure cliccare sulla e-mail sottostante