Riprendiamo dalla REPUBBLICA di oggi 23/02/2021, a pag.1 con il titolo "Apriamo gli occhi sull’Africa", l'analisi di Gianni Vernetti.
Gianni Vernetti
Luca Attanasio
Il migliore modo per onorare la memoria dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, caduti durante una missione umanitaria in Congo è di non voltare lo sguardo di fronte alle guerre dimenticate, ma di tornare ad occuparci seriamente dell’Africa a tutto campo: più aiuti umanitari, più cooperazione allo sviluppo, più cooperazione nel settore della sicurezza da un lato, ma anche valorizzazione delle tante opportunità che possono emergere da un più solido rapporto con le economie emergenti del continente. L’ambasciatore Luca Attanasio era da tre anni a Kinshasa a rappresentare il nostro Paese con la moglie e tre figlie piccolissime. L’ho incontrato diverse volte a Casablanca, quando era Console generale e poi a Kinshasa recentemente. Un uomo coraggioso e solare, un diplomatico capace ed efficace, la cui passione per l’antropologia e l’arte africana gli hanno fornito strumenti in più per comprendere la realtà che lo circondava. È caduto in un quella zona instabile fra Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Rwanda, che da quasi 30 anni non riesce a trovare pace. Il governatore del Nord Kivu Carly Nzanzu Kasivita fornisce una prima versione dei fatti: rapimento, fuga nel Parco Nazionale di Virunga, scontro a fuoco con l’esercito congolese (Fardc) e le “EcoGardes”, i ranger armati del parco, con l’esito tragico che conosciamo. «I ribelli parlavano kinyarwanda » dice il governatore, e punta il dito su ciò che resta di quelle milizie “hutu” che nel 1994 in soli cento giorni si resero responsabili in Rwanda dell’ultimo genocidio dello scorso millennio: quello di un milione di “tutsi” nel piccolo Paese delle colline. Sono i resti delle Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (Fdlr), uno dei protagonisti della “guerra mondiale africana” che dal 1994 nel nord e nell’est del Congo ha visto morire circa 5 milioni di civili, coinvolgendo eserciti e milizie di una dozzina di paesi.
Le Fdlr sono oggi sono un gruppo residuale che vive di rapimenti ed estorsioni fra i villaggi del North Kivu con qualche sconfinamento nella vicina Uganda. Ma le milizie hutu non sono l’unico gruppo terroristico che potrebbe aver compiuto l’attacco. Gli occhi sono puntati anche sulle recenti infiltrazioni jihadiste che dalla Somalia, al nord del Mozambico si fanno largo in diversi Paesi dell’Africa orientale e centrale. Nel caso congolese si tratta delle “Adf-Allied Democratic Force”, gruppo ugandese da poco affiliato ad Isis, attivo anche nell’area dove è stato ucciso il nostro ambasciatore e più a nord nel bacino dell’Ituri. L’allarme per la penetrazione jihadista nel Congo orientale fu lanciato lo scorso anno dal nuovo presidente della Repubblica Democratica del Congo, il riformatore Felix Tshisekedi, che ha guidato dal gennaio del 2019 un cambio di regime pacifico e non violento, dopo 23 anni consecutivi di governo del Paese da parte della “dinastia” dei due presidenti Laurent Desiré Kabila e del figlio Joseph Kabila.
Dal 1 febbraio Felix Tshisekedi è anche presidente di turno dell’Unione Africana e su di lui sono riposte molte speranze della comunità internazionale per una svolta nella stabilizzazione del nord del Paese e per una normalizzazione delle relazioni con la comunità internazionale, a cominciare da un rilancio a tutto campo delle relazioni politiche, economiche e commerciali con Usa ed Europa, per lungo tempo praticamente azzerate. Oggi è ancora presente nella Repubblica Democratica del Congo una delle più grandi missioni di peacekeeping e di stabilizzazione delle Nazioni Unite, la Monusco, con oltre 15.000 soldati di 47 nazioni diverse. Ma come ricorda Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018, dal suo Panzi Hospital a Bukavu, dove in quindici anni ha curato oltre 40.000 donne vittime di stupri di massa nelle successive guerre congolesi, «la missione delle Nazioni Unite ha ottenuto buoni risultati di contenimento, ma non ha risolto il problema alla radice. Le “regole d’ingaggio” delle missioni della Nazioni Unite hanno troppi vincoli di azione». E questo è uno dei punti chiave per poter affrontare le guerre dimenticate dell’Africa che purtroppo ci riguardano da vicino. Servono missioni internazionali capace di agire, sconfiggere in modo definitivo terrorismo e le milizie armate, dimostrando che non c’è impunità per i crimini compiuti. La “Responsabilità di proteggere” può e deve diventare una vera priorità della comunità internazionale. I crimini di massa devono essere prevenuti con meccanismi che permettano azioni di “ingerenza umanitaria” da parte della comunità internazionale. L’Africa è un continente che ci riguarda. Tornare ad occuparsene con serietà è una priorità per l’Italia e per l’Europa.
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